Populismo lo spettro che si aggira per il mondo
REMO BODEI
Il moderno populismo ha una data di nascita: il 1895. È l´anno in cui
Gustave Le Bon pubblica La psicologia delle folle e, per combinazione,
quello stesso in cui i fratelli Lumière mostrano al pubblico i primi
filmati.
Dinanzi ai tentativi dei nuovi "barbari", delle masse ignoranti e
violente, di organizzarsi tramite i partiti socialisti, e dinanzi
all´incapacità delle élite liberali di porre un freno alla loro
rovinosa ascesa, Le Bon suggerisce un modello di politica incentrato
sulla figura del meneur des foules. Qualche decennio più tardi,
l´espressione sarà resa nelle varie lingue con i termini Duce, Führer,
Caudillo, Conducator. Eppure, sebbene Mussolini si sia vantato di aver
letto diverse volte la sua opera, non si può ridurre Le Bon a un
semplice precursore del fascismo. Anche il presidente degli Stati Uniti
Theodor Roosevelt l´ammirava.
Alla base della teoria di Le Bon sta la convinzione che, negli stati
moderni, la stragrande maggioranza degli uomini è incapace di dirigere
autonomamente la propria vita. Infatti, una volta incrinata la fede nei
dogmi della Chiesa e dello Stato, nessuna autorità riesce più a imporsi
e nessun ragionamento personale ha da solo la forza di orientare il
pensiero e l´azione. Il meneur des foules deve dunque restaurare
artificialmente la capacità delle masse di credere in un´autorità
indiscutibile, che si rivolga direttamente a esse con discorsi che
sembrino l´eco rinforzata della vox populi, la traduzione efficace di
ciò che ciascuno vorrebbe sentirsi dire. A tale scopo, egli costruisce
miti inverificabili, inventa slogan, fa scrivere articoli e libri su di
sé e lascia che s´innalzino statue per consolidare la fede nella sua
forza e infallibilità. Sposta così il baricentro della politica dal
parlamento e dalla discussione pubblica verso la piazza e il monologo.
La figura del politico che si serve della persuasione razionale per
raggiungere i suoi fini viene sostituita da quella dell´artista che
plasma il materiale umano a sua immagine e somiglianza o
dell´ipnotizzatore, capace di far partecipare gli svegli a un sogno
comune, di inserire le loro emozioni e idee entro lo schema di
ideologie dominate da una logica dell´inverosimile e dell´irreale che
fa aggio sulla logica della realtà. Coadiuvato da uno stuolo d´esperti
(o addirittura da un Ministero della propaganda), il demagogo,
trascinatore di folle, si trasforma in psicagogo, abile nel penetrare
dentro l´anima e le motivazioni del "popolo", così da trasformarlo in
comparsa che si crede protagonista.
Com´è mutato il populismo oggi? Per comprenderlo, occorre partire da un
evento di cui non ci siamo quasi accorti. Della caduta del muro di
Berlino si è parlato molto; poco o nulla della caduta delle pareti
domestiche, provocata dalla televisione che ha fatto entrare la
politica in casa, infrangendo quel diaframma che - realmente e
simbolicamente - separava lo spazio pubblico da quello privato. La
soglia di casa non costituisce più un invalicabile confine fra due
mondi separati, un limite dinanzi al quale si arrestava persino il
potere assoluto del sovrano di Hobbes. Si produce una nuova forma di
politicizzazione, che coinvolge progressivamente figure per tradizione
più legate più alla dimensione concava della famiglia che non alla
dimensione convessa della politica. Attraverso la radio, i "regimi
totalitari di massa" ? com´è accaduto in Italia con il fascismo -
avevano già cominciato a stanare le donne, i bambini e i ceti che non
si erano mai interessati della vita pubblica dalla sfera privata,
trasformarli in "massaie rurali", "giovani italiane", «figli della
lupa» o "balilla".
Ora tale metamorfosi della politica ha luogo, in modo più efficace ma
meno visibile, per mezzo della televisione, che genera un consenso
"forzato", non perché strappato con la violenza, ma perché conseguito
mediante una forzatura, allo stesso modo in cui s´inducono gli ortaggi
a una crescita accelerata in serra. Tale serra, in cui il consenso
viene populisticamente drogato, è oggi rappresentata dalla casa.
Dopo i bambini, gli anziani, specie le "nonne, mamme e zie" sono i più
esposti agli effetti della televisione, ma, ovviamente, non i soli.
Certo, essi costituiscono non solo una riserva di voti finora
trascurata, ma anche la punta emergente di una numerosa quantità di
cittadini che spesso hanno allentato o perduto quelle relazioni
domestiche, interpersonali e politiche alle quali una volta
s´intrecciava l´esistenza individuale: la famiglia allargata dove più
generazioni convivevano sotto lo stesso tetto, la comunità di vicinato
o di fabbrica, le riunioni in parrocchia, gli incontri nelle case del
popolo e nelle sezioni di partito. Si tratta di soggetti che non hanno,
per lo più, rapporto con la politica militante, che assorbono e
valutano la vita politica soprattutto attraverso le immagini e i
discorsi della televisione. E si tratta, per lo più, di una politica a
basso costo di partecipazione, che si può elaborare in poltrona e che
non richiede defatiganti riunioni, sfilate e comizi.
Decine di milioni di cittadini adulti e attivi, uomini e donne, sono
tuttavia egualmente catturati dalla politica ?addomesticata´, nel
duplice senso di una politica introdotta nella casa e di una politica
adattata allo stile e alle modalità dei comportamenti, delle
aspettative, delle paure e dei litigi domestici. Per questo, i
protagonisti della lotta politica si caricano delle valenze (di
simpatia o di antipatia, di ?tifo´ pro e contro) che circondano gli
altri eroi dello schermo, dai conduttori di talk shows e di quiz agli
attori del cinema e ai personaggi delle telenovelas.
Dobbiamo ipotizzare che tali forme di populismo evolvano verso
eventuali regimi videocratici soft? Sebbene le democrazie siano dotate
di robusti anticorpi, un rischio remoto non è da escludere. Il potere
assunto dalla televisione è, tuttavia, più l´effetto di un disagio
sociale che una causa di pericolo. La democrazia appare, infatti,
sempre più minacciata dalla scarsità di risorse da ridistribuire, sia
materiali che simboliche. Il loro prosciugarsi - entro un orizzonte
d´aspettative sociali decrescenti - viene surrogato da un pathos
ipercompensativo di partecipazione mimetica alla vita pubblica, da
un´inflazione di sceneggiature, psicodrammi e messaggi politici sopra
le righe. Azzarderei pertanto l´ipotesi secondo cui gli elementi
spettacolari tendono, in questo caso, a crescere in proporzione diretta
all´aumento delle difficoltà da superare. Si possono cioè considerare
gli ingredienti di teatralità fine a se stessi, puramente emotivi, in
parte come sostituti di azioni efficaci e, in parte, come pubblici
cerimoniali propiziatori. Certo, nessuna politica si riduce a
teatralità, per quanto non si riesca a farne a meno. Il populismo è
nefasto proprio perché la politica a "uso esterno" prevale sulla
soluzione coraggiosa dei problemi. Ma quale politico è disposto a fare
a meno di un consenso più facilmente acquisibile?
la Repubblica
12 novembre 2003
La storia di un fenomeno che oggi è in piena espansione
Molti seguaci nessun maestro
La sua visione del mondo fa del popolo il depositario esclusivo dei valori positivi
MARCO TARCHI
Molti padri, interpreti e seguaci, nessun maestro. Sebbene si indugi
ancora a negargli lo status di teoria politica a pieno titolo, il
populismo ha dietro di sé una storia lunga e multiforme. La sua visione
del mondo che fa della volontà del popolo, rappresentato come se fosse
un aggregato sociale omogeneo, depositario esclusivo dei valori
positivi, il termine costante di riferimento e la fonte principale
d´ispirazione per i comportamenti degli individui, sin da fine
Ottocento si è presentata sulla scena di vari paesi, declinandosi in
forme specifiche ad ogni contesto. L´esordio avvenne nella Russia nei
narodniki, giovani intellettuali urbani che migrarono nelle campagne
per trovare nella purezza della vita rurale il cemento rigeneratore di
uno spirito popolare autentico estintosi a Mosca o a San Pietroburgo.
Pochi anni dopo negli Usa la nascita del People´s Party riprodusse lo
stereotipo della naturale onestà contadina minacciata dalla protervia
dei parassiti del governo di Washington. Da allora in poi la mentalità
populista, divisa tra il rifiuto della politica di professione, unito
alla richiesta di affidare alla gente comune la gestione dei propri
affari, e la tentazione di affidare l´espressione della propria voce a
un uomo forte, un outsider venuto dal basso, si è diffusa a macchia
d´olio, anche se tramite una continua alternanza di ondate di piena e
secche.
Al primo populismo agrario ne è seguito negli anni fra le due guerre
mondiali un secondo, politico ed economico, che ha celebrato i suoi
fasti soprattutto in America Latina con Eva e Juan Domingo Peron,
Getulio Vargas e i molti sodali e imitatori, impegnati nell´incorporare
le masse dei rispettivi paesi in uno sforzo di modernizzazione che non
cancellasse il radicamento nelle tradizioni locali ma ne proiettasse i
capisaldi in un contesto dinamico. Sin da allora la lettura schematica
e manichea della realtà che caratterizza questa mentalità ha esercitato
una importante funzione di sintesi, globale e cicatrizzante, come l´ha
ben definita Ludovico Incisa di Camerana, che ha permesso ai suoi
sostenitori di rimuovere il peso dei conflitti di interessi sulla
politica o di attribuirne l´esistenza alla colpevole incapacità di
classi dirigenti oligarchiche corrotte oppure all´interferenza di
soggetti esterni ostili.
Ciò spiega perché il populismo abbia trovato proseliti a destra come a
sinistra nella variegata coorte dei caudillos impegnati a liberare le
proprie nazioni dal peso della dipendenza dai poteri economici locali e
internazionali, presentandosi come uno schema di azione buono tanto per
conservatori "illuminati" quanto per militari progressisti.
Ciò spiega perché la contrapposizione tra il "buon" popolo e le
egoistiche élite che ne sfruttano l´ingenuità e la capacità di
sacrificio, accompagnata dalla diffusione di una oleografia nella quale
predomina la figura di uno o più capri espiatori, gli agenti
"antipopolari" che sarebbero alle radici dei mali di cui soffre la
comunità nazionale, ha fatto proseliti in molte aree del mondo pur
senza mai trovare interpreti dottrinari capaci di dar corpo a qualcosa
di assimilabile a un´ideologia. Gli esperimenti populisti,
contraddistinti da un complesso di atteggiamenti e convinzioni
convergenti, si sono moltiplicati. In Africa nell´era postcoloniale
seguita al tramonto dell´illusione di un indolore trapianto delle
istituzioni democratiche occidentali. In Asia sotto forma di dittature
e di sviluppo. Ma anche negli Usa, dove un sottile filo rosso ha
collegato la retorica e lo stile di uomini come Huey Long, il
governatore della Louisiana degli anni Trenta ucciso da un attentato
mentre la sua sfida al Big Government eccitava gli animi di molti
seguaci, di George Wallace, il governatore dell´Alabama che sfidò alla
fine degli anni Sessanta democratici e repubblicani incassando a sua
volta le pallottole di un contestatore, e del più pragmatico e
tecnologico Ross Perot, avversario di Clinton e Bush senior.
Grazie all´elasticità dei riferimenti ideali e ai connotati emotivi
dello stile comunicativo, che ha il vantaggio di offrire soluzioni
apparentemente semplici ai problemi di individui e gruppi che vivono
con incertezza e paura la crescita dei conflitti sociali nei paesi più
sviluppati, il populismo si è infine diffuso anche in Europa. In una
versione spuria, gravata da uno statalismo estraneo al suo codice
genetico, il primo a importarlo è stato il fascismo, ma solo dopo il
1945 le sue stigmate antipolitiche si sono impresse nel vecchio
continente in modo autonomo. Copiato nello stile a destra e a sinistra,
le sue manifestazioni originali si sono conservate nella sostanza in
fenomeni come il qualunquismo e il poujadismo e hanno preso vigore
negli anni Settanta con la crisi delle politiche conservatrici e
socialdemocratiche in Scandinavia (i Partiti del progresso degli anni
Settanta), diventando in seguito una formula di relativo successo che
sta contagiando un intero continente.
la Repubblica
12 novembre 2003
Il caso
Quando i politici dicono bugie
RALF DAHRENDORF
IL SOSPETTO che i politici siano inclini a mentire è antico quanto la
stessa politica. Eppure, quando una bugia viene portata alla luce
spesso le conseguenze sono nefaste – almeno nei paesi democratici – per
il politico in questione. Di fatto, è praticamente questo l´unico modo
rapido e definitivo per toglierlo di mezzo; ragion per cui è un metodo
privilegiato dagli oppositori politici.
Ma cos´è esattamente una bugia nel mondo politico? Uno dei casi più
eclatanti ha portato alle dimissioni di un primo ministro, Anneli
Jaatteenmaki, la prima donna ad occupare questa carica in Finlandia.
Durante la campagna elettorale per la sua elezione aveva accusato il
suo predecessore di ambiguità, per aver tenuto ai cittadini finlandesi
un discorso diverso dalle dichiarazioni fatte al presidente americano
George W. Bush.
Le sue informazioni erano basate sui dati del ministero degli esteri
finlandese. Ma aveva preso visione di quei documenti? Interrogata in
proposito, si era confusa e aveva finito per dire di non conoscerli. Fu
invece dimostrato il contrario, e poiché risultò che era in possesso di
un documento segreto, si dimise dalla carica.
Anche il parlamento tedesco ha in corso un´indagine sul cancelliere
Gerhard Schroeder, accusato di aver «lesinato la verità» durante la
campagna elettorale. Ma il suo caso è molto diverso. L´opposizione, che
ancora risente dello smacco subito alle ultime elezioni, perse di
stretta misura l´autunno scorso, lo ha accusato di aver occultato la
debolezza della situazione economica tedesca e le sue conseguenze per
il bilancio nazionale.
A quasi un anno dalle elezioni, un comitato parlamentare d´inchiesta
sta ancora ascoltando i «testimoni», e non sembra che l´indagine sia
destinata a fare molta strada. Nel migliore dei casi, i deputati
finiranno per offrire al pubblico un´ennesima versione di uno degli
espedienti prediletti dai politici, concludendo che in effetti
l´indagato aveva detto la verità, nient´altro che la verità ma non
proprio tutta la verità.
Attualmente il caso più grave è quello del presidente Bush e del primo
ministro britannico Tony Blair. Di fatto, quest´ultimo è oramai l´unico
ad essere sotto accusa, dato che l´apparente successo del conflitto
iracheno sembra aver assolto Bush (almeno per ora) da ogni possibile
peccato. Blair è invece duramente attaccato dalla Commissione
parlamentare per gli affari esteri per aver sopravvalutato la minaccia
rappresentata da Saddam Hussein.
A quanto si sostiene, i dati dell´intelligence sarebbero stati gonfiati
dagli accoliti di Blair. E più in particolare, non esisterebbero prove
che il dittatore iracheno sarebbe stato in grado, come ha asserito il
premier britannico, di lanciare le sue armi di distruzione di massa
(ADM) «nel giro di 45 minuti».
Ma quanto è importante che questa informazione fosse rigorosamente
veritiera? Non sappiamo forse, in base a prove raccolte in passato, che
Saddam Hussein intendeva dotarsi di ADM per utilizzarle quando se ne
fosse presentata l´occasione? Forse che le ragioni di questa guerra non
sono superate dalla sua realtà? E in definitiva, il problema è davvero
quello di aver mentito?
Nel caso britannico la risposta non è tanto semplice. A metà del suo
secondo mandato, Tony Blair sta attraverso un brutto momento.
All´interno del suo stesso partito, i suoi oppositori tendono sempre
più a prendere il posto dell´inconsistente opposizione conservatrice.
Blair è oggi molto più vulnerabile di un anno fa, e deve muoversi con
la massima cautela per evitare ulteriori defezioni dai propri ranghi.
C´è poi un´altra questione. Le ragioni addotte per la guerra in Iraq
non sono mai state del tutto chiare. Quello delle armi di distruzione
di massa in mano a Saddam era soltanto uno di tutta una sequenza di
argomenti. C´era anche - almeno negli Usa - il desiderio di vendicare
gli attacchi terroristici contro New York e Washington; e c´erano gli
interessi geopolitici.
Tony Blair ha inoltre espresso la propria indignazione morale nei
confronti del dittatore iracheno, che aveva agito verso il suo popolo
in maniera tale da giustificare l´esigenza di un cambiamento di regime.
Lo schieramento favorevole alla guerra si era mostrato spesso
riluttante su alcuni di questi argomenti per privilegiarne altri; e chi
aveva puntato sulla questione delle ADM oggi si sente tradito. Robin
Cook e Clare Short, i due ministri che si sono dimessi a causa di
questa vicenda, continuano ad attaccare Blair per le sue «bugie» perché
vogliono la loro propria rivincita.
Finora Blair si è dimostrato refrattario ad ogni accusa, lanciandosi
anzi al contrattacco contro la BBC, che non aveva mai sostenuto la
guerra con grande entusiasmo. E´ stato il sentore corrotto delle bugie
a generare quell´incertezza che ora plana su Blair come un avvoltoio?
Oppure, più in generale, il primo ministro sta perdendo la fiducia dei
cittadini, e persino quella dei suoi amici ed alleati di un tempo?
La fiducia è un bene vitale per tutti i politici; e una volta perduta,
è assai difficile da riconquistare. Blair ha adottato spesso
l´atteggiamento di chi dice: «Fidatevi di me!», e lo ha fatto anche per
la guerra in Iraq. In ogni caso, per perdere la fiducia dei cittadini
non c´è neppure bisogno di essere stati colti in flagrante peccato di
menzogna; è sufficiente l´ombra del dubbio. Di fatto, la reputazione di
un politico può essere danneggiata anche quando nessuno mette in
discussione la veridicità delle sue dichiarazioni. Basta la sensazione
che stia cercando di trarre in inganno la gente, o semplicemente
dimostri di non avere le idee chiare.
Un leader può dire la verità, nient´altro che la verità ma non proprio
tutta la verità, e continuare a godere della fiducia della popolazione.
Ma una volta che l´abbia persa, non sarà più creduto neppure quando è
sincero.
(traduzione di Elisabetta Horvat)
Copyright: Project Syndicate/Institute for Human Sciences, febbraio 2003
la Repubblica
14 luglio 2003
Il conflitto sociale motore della democrazia
ALAIN TOURAINE
È VERO, tanto raramente si riflette sulla democrazia, quanto
assiduamente se ne parla e non sembra esserci un motivo preciso per
disquisire sulle definizioni formali, come quella di Dahl, e su
considerazioni morali piuttosto che politiche, oppure storiche
piuttosto che analitiche. Ecco spiegata l´importanza dell´articolo di
Michele Salvati (13 giugno scorso). Non ho nulla da dire su ciò che in
quell´articolo può forse essere di maggior utilità per gli italiani,
vale a dire il monito affinché non si limitino a esprimere disprezzo
per Berlusconi. È in qualità di cittadino di un paese democratico che
voglio esprimere quanto abbia apprezzato le idee di Michele Salvati e
approfondire una questione della massima importanza.
Affinché il processo decisionale possa partire dal basso, ascendere
verso l´alto e lì rimanervi, al riparo da ogni forma di assolutismo, è
necessario che siano soddisfatte tre condizioni fondamentali. La prima
è che per poter essere presentate al mondo politico le rivendicazioni
sociali devono essere sufficientemente definite, trasparenti ed
equilibrate. Dal canto suo il mondo politico deve non soltanto saper
rispondere alle esigenze della democrazia rappresentativa, ma deve
soprattutto essere credibile nelle modalità con cui opera e nella
definizione delle sue campagne principali. Infine, la tutela contro
ogni forma di assolutismo presuppone che l´affermazione dei diritti
individuali, che condizionano tutti gli interventi politici, sia
garantita al di sopra delle istituzioni – in particolare a livello
costituzionale. Chiarisco subito, tuttavia, che oggi l´ambito di questi
diritti si è considerevolmente dilatato. A partire dalla fine del XIX
secolo, ai diritti sociali si sono aggiunti i diritti civili, e in
seguito – molto più recentemente - i diritti culturali, al cui nucleo
potrebbero ascriversi i diritti cosiddetti di "genere", ovvero il
riconoscimento dei diritti delle donne e delle minoranze sessuali.
L´analisi di Michele Salvati insiste sull´opportunità del senso della
misura, in quanto il sistema democratico non può funzionare qualora le
richieste che gli sono rivolte non siano contenute, allorché non sia
possibile fornire soluzioni quantomeno parziali a problemi a loro volta
disomogenei, e infine qualora non vi sia uno scontro diretto con un
potere autoritario. Questa riflessione apparentemente marginale in
realtà è estremamente importante, perché se una situazione si presenta
come rivoluzionaria, come se dovesse implicare delle riforme radicali
che esulano dall´ambito di tutti i contesti istituzionali, diverrebbe
impossibile parlare di democrazia. Se noi consideriamo la democrazia
come un valore supremo, è proprio perché l´epoca delle grandi
rivoluzioni si è conclusa, perché crediamo necessario apprendere a
gestire le nostre vicende piuttosto che lasciarci travolgere da una
tempesta. Ho dunque chiarito, in relazione al livello superiore, quanto
la democrazia richieda l´eliminazione più completa possibile di tutte
le istituzioni la cui funzione consiste nel mantenere, trasmettere o
adattare un ordine consolidato. A tale livello superiore, quello degli
interventi dello Stato e delle politiche pubbliche, la cosa più
importante è diffondere quanto più possibile il principio dei diritti
umani, che fornisce il presupposto non sociale indispensabile al buon
funzionamento degli insiemi sociali. La libertà, l´uguaglianza, la
giustizia non sono forme di organizzazione sociale, bensì principi che
si oppongono a – o cui sono contrapposte – tutte le aspirazioni del
potere e del governo, alle quali si piegano molto più volentieri coloro
che detengono l´autorità. È dunque del livello inferiore, quello in cui
si configurano le rivendicazioni, che occorre innanzi tutto occuparsi.
Io credo che sia opportuno pertanto formulare l´ipotesi che non possa
esistere una democrazia che non è stata partorita o messa inizialmente
in moto da un movimento sociale, che a sua volta potrebbe anche
prendere una piega non democratica, ma che deve invece incanalarsi
verso la democrazia senza fare del tutto assegnamento sui pregi del
sistema democratico stesso. La democrazia sociale, alla nascita della
quale abbiamo assistito alla fine del XIX secolo, seguendone quindi lo
sviluppo nella seconda metà del XX, fu il frutto dell´impegno del
movimento operaio, perfino nei paesi democratici che tardarono
maggiormente a riconoscere i diritti sociali, come avvenne negli Stati
Uniti e in Francia, a differenza della Gran Bretagna e della Germania.
Più precisamente fu il movimento operaio, il sindacalismo, che concertò
tutte le varianti del Welfare state che dopo la seconda Guerra mondiale
o in anni a noi più recenti hanno trasformato i paesi europei. Il
motivo principale del gravissimo e crescente cedimento della democrazia
odierna è che essa non porta più in ambito politico le istanze del
movimento sociale. Al contrario, si potrebbe quasi affermare che nel
mondo occidentale, e negli Stati Uniti più ancora che in Europa, il
riconoscimento dei diritti culturali è in regresso, tanto esasperata è
diventata la paura dell´insicurezza, del terrorismo, del fanatismo
religioso, ecc. Laddove fino a poco tempo fa si udivano ancora appelli
alla diversità e al pluralismo, ora si sente difendere il concetto
predominante di convergenza dei valori culturali dominanti. A causa del
suo attaccamento alla dimensione più internazionalista in tema di
difesa dei diritti umani, la Francia è anche il paese in cui è più
forte il diniego a riconoscere i diritti culturali, al punto che
rischia che in futuro si verifichino degli scontri – scontri che
peraltro alcuni sembrano perfino vagheggiare, auspicando che questo
paese laico conduca contro l´Islam una lotta altrettanto lunga e
risoluta quanto quella combattuta in passato contro la Chiesa
cattolica. Così, diventa difficile e pressoché impossibile per una
forza politica patrocinare il concetto secondo cui la diversità dei
mezzi di modernizzazione non contraddice l´insieme di ciò di cui è
fatta la modernità: il razionalismo, la laicità, il riconoscimento dei
diritti della persona. Ci fu un periodo in cui il movimento femminile
riuscì a innescare delle riforme legali e amministrative sufficienti a
far parlare di un´ulteriore passo avanti della democrazia. Tuttavia i
progressi ottenuti non comportarono l´affacciarsi di nuove
rivendicazioni, così che ora le esigenze o le opinioni femminili non
avvertono il bisogno di un´espressione politica.
Questo è il concetto che vorrei annettere all´apprezzabile analisi di
Michele Salvati: l´ordine politico non è maggiormente democratico se è
indipendente dalle forze esterne che premono su di lui. Anzi, è proprio
quando un movimento sociale si oppone alle forme costituite di
dominazione e di funzionamento che i meccanismi democratici possono
intervenire per evitare una lacerazione senza fine tra il
conservatorismo e lo spirito rivoluzionario. Forse la frammentazione o
la dissoluzione delle forze politiche è prodotta anc h´essa
dall´assenza di questo primum movens, perché come definire la destra e
la sinistra del mondo globalizzato se non tenendo presente che la
destra si prefigge di parlare a nome delle forze più globali e più
impersonali, prima di tutto il mercato, mentre la sinistra, che
conferisce maggior importanza agli attori piuttosto che al sistema, è
per sua natura più sensibile al necessario riconoscimento dei diritti
sociali e culturali?
È opportuno sottolineare la necessità di ridare priorità alle istanze e
ai conflitti sociali, non tanto affinché questi soverchino le
istituzioni politiche, ma al contrario, affinché siano in grado di
trattare e di trasformare quelle rivendicazioni sociali in istanze di
modelli democratici. È questo il trionfo della democrazia.
La condizione imprescindibile per rafforzare la democrazia è che i
nostri paesi, congiuntamente, a livello di Europa, siano capaci di
elaborare e di proporre un progetto mondiale, che si contrapponga
apertamente alle modalità di raffronto imposte dagli Stati Uniti, e che
faccia assegnamento su una ricerca paziente e al tempo stesso fruttuosa
di percorsi verso la modernità che non identifichino quest´ultima con
le forme più estreme di modernizzazione – tra le quali vanno inclusi il
laicismo o il repubblicanesimo alla francese. In altre parole, a ridare
vita alle istituzioni democratiche sarà più di ogni altra cosa
l´elaborazione da parte dell´Europa di una politica mondiale.
(Traduzione di Anna Bissanti)
la Repubblica
10 luglio 2003
Le diseguaglianze del nuovo capitalismo
di GIORGIO RUFFOLO
Si può dire che il secolo da poco trascorso abbia avuto come tema
dominante tragico della sua storia quello dell´eguaglianza. Attorno a
quello si sono svolti i suoi grandi drammi cruenti. Entrati nel XXI
secolo, abbiamo l´impressione che questo tema abbia perduto la sua
centralità politica; o che addirittura sia stato rimosso dalla
coscienza collettiva. Ci stiamo rassegnando, nel mondo del capitalismo
avanzato, a un destino di diseguaglianze crescenti?
Gli Stati Uniti d´America sono, senza alcun dubbio, lo spazio politico
e sociale nel quale dobbiamo cercare la conferma di questa impressione.
E´ lì che bisogna leggere i messaggi più significativi al nuovo secolo,
provenienti dalla società più ricca e dalla nazione più potente.
Rispetto all´eguaglianza, gli Stati Uniti hanno attraversato, nel
Novecento, tre fasi ben distinte. La prima, dall´inizio del secolo alla
grande crisi degli anni trenta, è la Gilded Age del capitalismo
selvaggio: un tempo di crescita tumultuosa e di laceranti disparità
sociali. La seconda, dalla fine della guerra agli anni settanta, segna
una crescita altrettanto vigorosa, ma orientata in un senso nettamente
egualitario. E´ l´età della iperclasse media, del crogiuolo sociale
entro il quale sembravano sciogliersi le vecchie classi antagoniste. La
distanza tra il capo e la coda della società, tra la fascia dei redditi
familiari più alta e quella più bassa, si restringe, in quella fase,
notevolmente (i primi aumentano del 2,4%, i secondi del 3% all´anno).
Dalla fine degli anni settanta però la scena cambia ancora,
bruscamente: una crescita, nell´insieme del periodo, più lenta, si
accompagna a una tendenza di fondo nettamente disegualitaria: la fascia
dei più ricchi registra, tra il 1973 e la fine del secolo, un aumento
medio dei suoi redditi dell´1,5% all´anno, quella dei più poveri
addirittura una diminuzione, dello 0,6% all´anno: le due rive si
allontanano, il golfo torna largo.
Che cosa ha provocato questa nuova inversione? Seguiamo (con parole
nostre) il ragionamento che Paul Krugman ha svolto in un suo recente
saggio. E´ avvenuto un mutamento della struttura sociale della classe
dirigente capitalistica. E, più alla radice, un mutamento del clima
etico della società americana. Nell´era roosveltiana, al capitalismo
rampante e sbrigliato degli avventurieri, dei baroni predatori e dei
grandi Gatsby era subentrato un capitalismo organizzato. La tecnocrazia
aveva soppiantato la plutocrazia alla guida delle grandi Corporations.
Queste non erano più vascelli corsari abbandonati al timone spericolato
di capitani ossessionati dalle balene del massimo profitto, ma
organizzazioni complesse ordinate come reggimenti prussiani, affidate
ad esperti selezionati attraverso dure carriere e cooptati ai riparo
dei capricci di un azionariato sempre più diffuso. Quei tecnocrati
erano molto più preoccupati dello sviluppo di lungo periodo della
Grande Impresa (la Tecnostruttura, la battezzò Galbraith), della
espansione delle sue dimensioni complessive, che della massimizzazione
a breve termine dei suoi profitti. E quindi, molto più propensi a
stabilire rapporti di cooperazione durevole con i lavoratori e con i
loro sindacati attraverso la contrattazione collettiva; molto più
inclini a stabilizzare le condizioni del mercato attraverso la
fissazione oligopolistica dei prezzi; molto più disponibili a
collaborare con l´amministrazione pubblica dell´economia, persino entro
forme di programmazione concertata.
Ora: quella "rivoluzione manageriale" che sembrava stabilizzarsi in una
nuova forma di capitalismo tecnocratico è stata spazzata via. Con la
globalizzazione, il capitalismo ha vinto una battaglia storica: ha
sconfitto, in America e in Europa, la sinistra riformista. Questa è la
verità che sta dietro le chiacchiere dei "riformisti della cattedra".
Ha sottratto il mercato mondiale alla sovranità degli Stati. Ha
mercatizzato gran parte del territorio conquistato dallo Stato sociale.
E, soprattutto, ha rimercatizzato la grande impresa capitalistica,
riconsegnandola al controllo del capitale finanziario. La
Tecnostruttura si è dissolta in una rete di centri di profitto che
competono tra loro. I managers sono venduti e comprati, contesi ad
altissimi prezzi che misurano la loro "efficienza", cioè la loro
abilità nel farsi strada. Come per le stelle dello spettacolo e per i
grandi calciatori, i loro redditi riflettono, ben al di là dei loro
meriti e demeriti, rendite "posizionali": derivanti, cioè, dalla
posizione che essi occupano nella ragnatela gerarchica, che gli
permette di fissarsi essi stessi lo stipendio e di influire sul corso
delle azioni che costituiscono parte importante del loro reddito.
L´impresa mercatizzata risponde alle sollecitazioni dei mercati in
tempo reale, trasmettendole immediatamente alla sua organizzazione che
deve essere, quindi, "flessibilizzata" al massimo: niente sicurezza del
posto di lavoro, niente contrattazioni collettive, niente
stabilizzazione dei prezzi, niente contrattazione programmatica con il
potere politico (contrattazione, sì, ma tout court). Risultato: lo
"spazio economico" si dilata, le posizioni che ciascuno vi assume
diventano più lontane e più precarie.
Ci si può domandare se siamo tornati alla Gilded Age, agli anni del
capitalismo selvaggio. La risposta è no, per ragioni rassicuranti e per
ragioni inquietanti. Le prime riguardano la politica economica, che è
ben lontana dall´ottusità del liberalismo economico degli anni venti; e
la politica sociale: quel che resta, nonostante tutto, della rete di
protezione sociale intessuta dai governi democratici. Le altre
riguardano l´esasperazione delle diseguaglianze, e la fiacchezza della
reazione che esse suscitano in una opinione pubblica che sembra
rassegnarvisi. La portata della diseguaglianza non è misurata solo
dalla favolosa distanza che si è creata tra i più fortunati e la gente
comune in termini di reddito (da 70 volte a 300 volte negli ultimi
trent´anni), ma dalla tendenza alla secessione sociale. E cioè alla
formazione di mondi separati che si allontanano l´uno dall´altro: come
quello dei supermanagers pagati 120 milioni di dollari l´anno, e
"pensionati" con liquidazioni che comprendono l´uso vitalizio
dell´appartamento a Manhattan, il rimborso delle spese vive (vitto e
biancheria) e l´uso gratuito dell´aereo aziendale (è il caso,
tutt´altro che unico, di Jack Welch, Chief Executive della General
Electric, che almeno non ha truccato i conti); e l´altro mondo, quello
dell´Odissea dei sotto-sette (lavoratori precari a meno di sette
dollari l´ora) raccontata in un reportage dickensiano da Barbara
Ehrenreich, giornalista che ha vissuto per due anni tra di loro,
flessibilmente, lavorando da sguattera, da cameriera, da donna delle
pulizie, da badante (Nich and Dimed, Undercover in Low-Wage USA, 2001).
Per rendere sopportabili le stridenti iniquità sociali che certo non
sono mancate nel passato, la cultura delle élites capitalistiche
ricorreva a un´etica superiore che potesse riscattarle: la pazienza
cattolica, o la morale utilitaristica nelle sue tante versioni, la
austerità calvinista o il mito "eroico" dell´imprenditore
schumpeteriano. La peculiarità del nostro tempo, non soltanto in
America, è la rinuncia all´etica (un Premier inglese, Mac Millan,
diceva: se volete l´etica, rivolgetevi al vescovo) e il ricorso brutale
ma mobilitante a quella che potremmo definire l´antietica della
lotteria: il miraggio che, nel gioco di una redistribuzione perversa
dai moltissimi ai pochissimi, ci si possa trovare vincenti. La lotteria
è il paradigma di una società che può reggersi solo grazie
all´illusione. Era il grande Aristotele, dopo tutto, ad affermare che
agli uomini non importa di sapere, ma solo di credere.
Il problema è: a quanti e per quanto tempo, basterà credere nei
Dulcamara della lotteria globalizzata? Il nuovo capitalismo
globalizzato e rimercatizzato potrà fare a meno, a lungo o per sempre,
di una base etica? Uno degli economisti più brillanti del secolo
scorso, Fred Hirsch, credeva proprio di no, e vedeva nel "rientro
morale" la sola speranza del capitalismo di non andare incontro a un
nuovo disastro del tipo anni trenta. Precisava però che non è
necessario "essere morali". Basta essere tanto intelligenti da farlo
credere. Forse anche questo è diventato difficile.
la Repubblica
24 giugno 2003
Le idee dei filosofi nell'arsenale dei politici
RALF DAHRENDORF
John Maynard Keynes, forse il più grande economista del XX secolo,
disse una volta che a lungo termine, il corso della storia è
determinato, dagli intellettuali e dalle loro idee non meno che dai
politici. Non si riferiva ai vari consulenti speciali, ideatori di
programmi ad uso immediato o autori dei discorsi di presidenti e capi
di governo. E neppure ai commentatori della stampa o della tv, o ai
pundit i cui scritti servono da sottofondo musicale ai politici.
Intendeva gli autori di idee autenticamente feconde. Come la tesi dello
stesso Keynes, sulla necessità che di tanto in tanto lo Stato
intervenga a sostegno della domanda aggregata per salvare il
capitalismo.
Ma naturalmente, Keynes ci ha anche ricordato che a lungo termine
saremo tutti morti. Di fatto, la sua influenza ha raggiunto il culmine
dopo la sua morte, negli Anni 50, e soprattutto dopo il 1960. E anche
gli ispiratori (se questo è il termine corretto) delle minacce
totalitarie del XX secolo erano morti da tempo quando le loro idee
hanno dato frutto. In altri termini, è raro che gli effetti politici
della produzione intellettuale si manifestino nell´immediato. Bisogna
attendere che arrivi il loro momento.
Queste considerazioni inducono a rilevare un´altra caratteristica delle
grandi idee guida dei periodi storici: la loro tendenza a sorgere ai
margini delle ortodossie imperanti. Tanto che al loro primo apparire
sono considerate quasi irrilevanti, e comunque non in sintonia con lo
spirito del tempo.
Si possono citare ad esempio due libri: La via dell´asservimento di
Friedrich von Hayek e La società aperta e i suoi nemici di Karl Popper,
entrambi pubblicati alla fine della seconda guerra mondiale. Ma per
assistere al loro trionfo si è dovuto attendere fino al 1989, quando le
nuove società emergenti dal crollo del comunismo hanno sentito la
necessità di un linguaggio per esprimere i propri obiettivi. Non a
caso, fu allora che quei due libri vennero tradotti in quasi tutte le
lingue dell´Europa dell´Est e dei Balcani.
Allo stesso modo, i panegirici di Milton Friedman sul capitalismo puro
apparivano curiosamente fuori luogo negli Anni 60, all´apogeo della
socialdemocrazia. Ma alla fine degli Anni 70 venne la stagflazione,
risultante dalla concomitanza tra inflazione e basso livello di
crescita economica. Mentre gli economisti più inclini al pessimismo,
come Mancur Olson, sostenevano che solo una rivoluzione o una guerra
sarebbe stata in grado di sciogliere le rigidezze dello status quo,
Ronald Reagan e Margareth Thatcher recuperarono le tesi di Friedman,
accanto a quelle di Hayek e di altri. Anche in questo caso, si trattava
di conferire sostanza e di prestare un linguaggio a intenzioni
percepite vagamente, in lieve anticipo ma nel senso della dinamica
degli umori popolari.
Non ho mai attribuito un significato e un pedigree intellettuale del
tutto identici alla politica della "terza via", che da qualche anno è
sulla cresta dell´onda. Certo, l´idea di realizzare la quadratura del
cerchio tra giustizia e crescita rispondeva a una necessità, ma non era
tale da suscitare su vasta scala l´entusiasmo e il sostegno popolare. E
la stessa Teoria della giustizia di John Rawls, benché feconda, è
rimasta un passatempo per pochi piuttosto che un precetto ad uso dei
più.
Ma mentre ancora perdurava il concetto di "terza via", stavano
guadagnando terreno altre idee che inizialmente erano apparse
marginali, se non assurde. Assumendo a fondamento le concezioni di
Friedman e Hayek sull´inversione di rotta rispetto al welfare
socialdemocratico, si aggiungevano al rudimento di Stato residuale
alcune nuove idee, per uno Stato esclusivamente imbevuto di quello che
Joseph Nye definisce hard power: termine che riassume i concetti di
"legge e ordine" all´interno e di potenza militare verso l´esterno. Uno
Stato per un mondo hobbesiano, ove la sicurezza è posta al vertice
della scala dei valori.
Concetti del genere hanno una lunga storia. Guardando al XX secolo,
alcuni li collegano a figure quali Leo Strauss, di origini tedesche ma
emigrato in America, e persino a Carl Schmitt, il giurista di Hitler.
Più recentemente, queste tesi sono state adottate da un gruppo di
autori vicini alla rivista americana Commentary. E i think tank di
Washington hanno contribuito a trasformarle in un potente arsenale
intellettuale a uso dei neoconservatori, che prosperano all´ombra
dell´amministrazione Bush (anche se a titolo personale, il presidente
non fa parte di questo gruppo).
Ancora una volta, emergono alla ribalta idee nate tempo fa, ai margini
di un´epoca caratterizzata da un´ortodossia assai più liberale. E
raccolte, quando i tempi erano maturi, da politici che avevano trovato
in esse un utile principio organizzativo. Idee che forniscono a un
tempo le massime per l´azione e il linguaggio adatto a "vendere"
quest´azione al più vasto pubblico. E dominano la scena intellettuale,
tanto che tutte le alternative sembrano ormai prive di qualsiasi
opportunità. E che persino i liberali appaiono un po´ sfocati. O c´è
forse un altro Keynes pronto a spiccare il volo?
L´autore, sociologo, ex rettore della London School of Economics, guida il St. Anthony´s College di Oxford
Copyright Project Syndicate/Institute for Human Sciences, febbraio 2003
la Repubblica
18 giugno 2003
Ora governano le minoranze e la democrazia va in crisi
Forse nasceranno nuovi partiti che porteranno una ventata d´aria fresca
ma non basterà Per superare il problema bisogna ripensare tutto il
sistema
In tutto il mondo l´affluenza alle urne è in forte calo rispetto a
vent´anni fa: per il Parlamento europeo la partecipazione è addirittura
risibile
RALF DAHRENDORF
È accaduto qualcosa alla democrazia intesa come governo eletto dal
popolo ed è accaduto in tutto il mondo. In qualche modo la gente non
crede più nelle elezioni. L´affluenza alle urne è in calo in molti
paesi; nel caso specifico delle elezioni per il Parlamento Europeo il
livello di partecipazione al voto è talmente risibile da mettere in
dubbio la legittimità del risultato. Ma, affluenza a parte, siamo ormai
abituati ad accettare come "vincitori" partiti o singoli canditati che
ottengono il 25% dei suffragi. Dall´Olanda all´Argentina, dalla
Finlandia al Giappone, i governi di maggioranza sono formati con il
sostegno di una minoranza.
Quelle che all´apparenza sembrano eccezioni non danno prova del
contrario. Solo pochi presidenti americani hanno potuto contare su una
percentuale di consensi elettorali significativamente superiore al 10%
degli aventi diritto al voto. In realtà la metà degli aventi diritto al
voto negli Usa non è neppure inserita negli elenchi e, dei registrati,
la metà non si reca alle urne. Dei votanti meno della metà si esprime a
favore del candidato vincente. Persino la maggioranza ottenuta da Tony
Blair alla Camera dei Comuni britannica grazie a quella che è stata
definita una «valanga di voti» in realtà poggia su basi fragili: alle
ultime elezioni, nel 2002, il partito laburista ha ricevuto solo il 40%
dei suffragi a fronte di un´affluenza alle urne pari al 60%.
Nella maggior parte dei paesi la situazione è palesemente molto diversa
rispetto alle elezioni di venti anni fa, per non parlare di cinquanta
anni prima. Che cosa è successo?
Una risposta va trovata nella diffidenza degli elettori nei confronti
dei partiti politici. La democrazia elettorale opera nella maggior
parte dei paesi per il tramite di organizzazioni che presentano
candidati in rappresentanza di particolari pacchetti di opzioni
politiche, un "manifesto" o una "piattaforma". Per un certo numero di
motivi però questa prassi collaudata non funziona più.
Le piattaforme ideologiche hanno perso forza, gli elettori non
accettano i pacchetti offerti dai partiti, preferiscono scegliere
singole opzioni. Inoltre i partiti politici sono diventati delle
"macchine", organizzatissimi sistemi di quadri. Il paradosso è che
venendo meno le ideologie distintive, i partiti somigliano sempre più a
gruppi tribali, in cui l´appartenenza conta più dei credo.
Questa evoluzione ha allontanato i partiti dagli elettori. Poiché la
gente in genere non ha granché desiderio di iscriversi ad
un´associazione politica, giocare al partito diventa uno sport
praticato da una minoranza. Ciò accresce la diffidenza nei confronti
dei partiti politici, non da ultimo perché, come tutti gli sport a
livello professionistico, è un´attività costosa.
Se gli oneri vanno a pesare sulle spalle del contribuente, nasce
risentimento. Ma in assenza di finanziamento statale i partiti devono
procurarsi fondi tramite canali spesso sospetti, se non illegali. Molti
grandi scandali politici degli ultimi decenni hanno avuto origine da
finanziamenti offerti a partiti e singoli canditati.
Altri indicatori, come il forte calo degli iscritti, confermano la
scarsa popolarità di cui godono oggi i partiti. Eppure continuano ad
essere indispensabili alla democrazia elettiva. Dato che la loro sede
d´azione è il Parlamento, il distacco dall´elettorato incide su una
delle fondamentali istituzioni democratiche. I cittadini non guardano
più ai parlamenti come a organi che li rappresentano, legittimati
quindi a prendere decisioni per loro conto.
A questo punto entra in gioco un secondo elemento, del tutto distinto.
Gli individui sono sempre più impazienti. In qualità di consumatori
sono abituati a ricevere immediata gratificazione. Da elettori invece
sono costretti ad attendere prima di vedere i risultati prodotti dalla
scelta esercitata alle urne. A volte i desiderata non si realizzano. La
democrazia ha bisogno di tempo, non solo per le elezioni, ma per
deliberare ed esercitare un ruolo di controllo e di equilibrio.
L´elettore-consumatore però non sa accettare tutto questo e volta le
spalle.
Esistono delle alternative, ma ciascuna pone specifici problemi come
soluzione democratica. L´azione diretta, attraverso le manifestazioni,
è ormai un´evenienza regolare e spesso efficace. Chi è meno incline
alla mobilità può dare in alternativa espressione elettronica alle
proprie opinioni nelle chat-room su Internet o indirizzando e-mail ai
leader politici. Ci sono poi organizzazioni non governative, spesso non
democratiche nelle loro strutture, tuttavia più vicine, a quanto
sembra, ai cittadini. Oltre a queste esiste poi naturalmente la
possibilità di staccare del tutto la spina, lasciando la politica ai
professionisti per concentrarsi su altre dimensioni della vita.
Quest´ultima è l´opzione che presenta i rischi maggiori, perché va a
sostegno del subdolo autoritarismo che contraddistingue il nostro
tempo. Ma anche gli altri segni di allontanamento creano una condizione
di grande instabilità in cui non si può mai dire quanto le opinioni
prevalenti siano rappresentative. C´è chi vuole togliersi d´impiccio
con una democrazia più diretta. Ma non si può creare un rapporto
continuativo tra governanti e governati riducendo il dibattito pubblico
a semplici alternative referendarie.
Sono molti gli argomenti che depongono a favore del mantenimento delle
istituzioni classiche della democrazia parlamentare e giustificano lo
sforzo di riavvicinarle ai cittadini. Dopo tutto la diffidenza nei
confronti dei partiti e il calo dell´affluenza alle urne sono forse
solo fenomeni passeggeri. Può essere che nascano nuovi partiti portando
una ventata d´aria nelle competizioni elettorali e nei governi
rappresentativi. Ma con tutta probabilità ciò non basterà a ridare ai
governi eletti la legittimazione popolare perduta. Ripensare la
democrazia e le sue istituzioni deve essere quindi un´assoluta priorità
per tutti coloro che hanno a cuore il costituirsi della libertà.
Traduzione di Emilia Benghi
la Repubblica
21 maggio 2003
Riflessioni sulla democrazia
LIBERTA’ UN FRAGILE FUTURO
di GUIDO ROSSI
Le moderne democrazie non sembrano affatto preparate ad affrontare le
tre sfide maggiori che l’inizio del Terzo millennio sta proponendo: la
lotta al terrorismo, i problemi della globalizzazione e i cambiamenti
di una società sempre più di anziani. Queste sono le conclusioni che
Fareed Zakaria, il direttore di Newsweek International , tira alla fine
del suo recente libro «The future of freedom», Futuro della libertà.
L’analisi spietata delle democrazie illiberali fa temere l’effetto
distruttivo di un vento giacobino che tende a spazzar via gli effetti
benefici che il liberalismo costituzionale ha posto alla base della
civiltà occidentale. È dal liberalismo che nasce la democrazia e non
viceversa.
Ma il liberalismo costituzionale, ispirato al principio di tolleranza,
si fonda sullo Stato di diritto, sulla separazione dei poteri, sulla
protezione delle libertà e intrinsecamente non ha nulla a che vedere
con la democrazia, sicché spesso se ne discosta. Jugoslavia e Indonesia
erano certamente più tolleranti quando erano rette da dittatori come
Tito e Suharto che non nelle attuali democrazie. Il liberalismo
costituzionale riguarda le finalità dei governi e non le procedure per
la loro selezione. Quando le democrazie non sono liberali il futuro
delle libertà è in pericolo e le stesse democrazie non hanno avvenire.
La deriva democratica è l’abuso della maggioranza e questo abuso
minaccia soprattutto il liberalismo. Nessuno può dimenticare che nelle
famose elezioni del 1933 i nazisti ebbero il quarantaquattro per cento
dei voti, pari ai voti degli altri tre partiti perdenti messi insieme,
e furono richiesti di formare il governo. Il nazionalismo autoritario
razzista trionfò alla fine della Repubblica di Weimar non in spregio,
bensì a causa della democratizzazione della vita politica .
Ci si chiede oggi perché noti personaggi della politica e del
giornalismo che avevano in passato militato nelle file dell’estrema
sinistra siano adesso con disinvoltura passati alla destra e li si
accusa di aver tradito la democrazia, per scopi non sempre candidi. La
diagnosi è sbagliata: erano illiberali prima, sono illiberali oggi e
soprattutto credono nel potere giacobino del popolo, o meglio della
maggioranza.
Se si crede che la maggioranza rappresenti la melior pars dei cittadini
e che il suo volere possa porre nel nulla i principi basilari del
liberalismo: quali, ad esempio, i diritti fondamentali dei cittadini,
dalla libertà di opinione a quella di associazione, e i principi base
del costituzionalismo, della divisione e indipendenza dei tre poteri,
il legislativo, l’esecutivo e il giudiziario, secondo gli insegnamenti
di Montesquieu e Tocqueville, allora la democrazia in quanto tale è una
conchiglia vuota e può anche diventare pericolosa.
Nel quarto secolo avanti Cristo ad Atene, dove si dice la democrazia
greca abbia avuto il suo maggior splendore, l’assemblea popolare, con
voto democratico, condannò a morte, per le sue opinioni, uno dei più
grandi filosofi di tutti i tempi. L’esecuzione di Socrate fu
democratica, ma non liberale.
Il vento giacobino minaccia molte democrazie occidentali, da quella
statunitense a quella italiana. Le maggioranze che impongono le loro
volontà in patria e all’estero, che pretendono di esportare con le
guerre la loro democrazia, che attaccano i principi costituzionali di
libertà, che attaccano indiscriminatamente i poteri dello Stato
svilendo l’indipendenza della magistratura, vivono nell’abuso e
coltivando indisturbati conflitti di interesse, minacciano la libertà
dei cittadini e possono solo esaltarsi nell’autoreferenzialità di
circoli viziosi e di ambizioni totalizzanti.
Val forse la pena allora di ricordare loro un’antica storia raccontata
nel suo libro «Il diritto come sistema autopoietico» da Gunther Teubner.
Accadde una volta che il rabbino Eliezer esponesse un’interpretazione
di un problema giuridico del Talmud. L’interpretazione non era
condivisa dalla maggioranza, sicché Eliezer affermò che, qualora egli
fosse stato nel giusto, un carrubo fuori della Sinagoga si sarebbe
mosso di un passo, un ruscello vicino avrebbe dovuto scorrere al
contrario e le pareti della Sinagoga avrebbero dovuto piegarsi. Tutto
ciò avvenne, ma puntualmente ogni volta i rabbini dichiararono che,
essendo la maggioranza, solo loro erano nel giusto. Allora Eliezer
dichiarò che il Cielo avrebbe confermato le sue tesi. Quando una voce
celeste confermò la validità dell’interpretazione di Eliezer, i rabbini
replicarono: «Noi non ascolteremo la voce del Cielo, ... (perché)
bisogna inchinarsi all’opinione della maggioranza». E Dio rise.
Corriere della Sera
24 maggio 2003