SPINELLI: la memoria deragliata
COMUNISMO-NAZIFASCISMO, DUE PESI DUE MISURE NELLA COSCIENZA MODERNA
DELL’OCCIDENTE: IL NUOVO LIBRO DELL’EDITORIALISTA DELLA «STAMPA»
Paolo Mieli
QUALCHE giorno fa lo scrittore francese di origini bulgare Tzvetan
Todorov di cui Garzanti sta per dare alle stampe un importante libro di
riflessioni sul Novecento, Memoria del male, tentazione del bene , è
tornato sul parallelo tra comunismo e nazismo. Lo ha fatto per
denunciare i danni arrecati alla storiografia (e non solo a quella) dal
tabù che per oltre cinquant’anni ha pressoché paralizzato - con delle
eccezioni, ovviamente - gli studi sui rapporti di parentela tra nazismo
e comunismo. Da qualche tempo, anche, in parte, per merito di studiosi
come Marco Revelli e di libri come il suo Oltre il Novecento (Einaudi),
questo tabù sembra essersi infranto. Si può parlare di ciò che rese
simili quei due pur diversi fenomeni totalitari senza essere indicati
alla scienza medica come ammalati di «nevrosi comparativa». O, almeno,
così sembra. La prova definitiva del fatto che si sia o meno rotto il
tabù di cui Todorov ci ha ricordato l’esistenza, la avremo dal modo in
cui sarà accolto lo straordinario libro scritto da Barbara Spinelli, Il
sonno della memoria - L’Europa dei totalitarismi (Mondadori). L’autrice
non ha bisogno di essere presentata ai lettori della Stampa che
troveranno in questo importante saggio una sistemazione dei suoi
articoli domenicali, in particolare quelli dell’ultimo decennio.
L’Europa, i paesi che furono comunisti, l’Austria di Haider, le stragi
del Ruanda, quelle della ex Jugoslavia e della Cecenia («un popolo
trasformato in capro espiatorio dello sfacelo russo»), Israele, i mea
culpa di Giovanni Paolo II, e tutto ciò di cui si è approfonditamente
occupata settimana dopo settimana, le impongono adesso, al momento
della sintesi, di tornare su quel nesso tra i totalitarismi. Anche e
soprattutto per spiegare il perché di molte cose che sono accadute dopo
l’89 e la fine definitiva della guerra fredda. «Questo libro», scrive,
«tenta di descrivere una malattia della mente che impedisce all’Europa
e alla sua cultura di apprendere lezioni dal passato: Mnemosyne è il
filo conduttore, e alla madre delle Muse è dedicata questa
investigazione, necessariamente approssimativa perché ha come oggetto
il tempo d’oggi, che è labile».
Diciamo subito che colpisce positivamente il fatto che la Spinelli per
definire comunismo e comunisti usi sempre il termine «comunismo» e
l’aggettivo «comunista». Si dirà: cosa c’è di strano? E’ normale che
una cosa venga chiamata con il suo nome. Nient’affatto. Se prestiamo
attenzione alla pubblicistica corrente, potremo notare che ancora oggi,
a dodici anni dalla caduta del Muro, quando si parla delle nefandezze
del comunismo si ricorre spessissimo al termine «stalinismo» e
all’aggettivo «stalinista». Anche per episodi capitati dieci, venti,
trent’anni dopo il 1953, l’anno in cui Stalin morì. Curioso, no? Le
efferatezze commesse per decenni nel nome del comunismo in ogni parte
del mondo vengono messe tutte sul conto di Iosif Vissarionovic
Dzugasvili. O al massimo, qualche piccola cosa, di quell’altro diavolo
che risponde al nome di Pol Pot. Quasi a voler alleviare il fardello di
responsabilità di tutti gli altri che - prima, durante e dopo, molto
tempo dopo la stagione in cui fu al potere il despota georgiano - nel
nome del comunismo diedero il loro contributo, anche solo fingendo di
non vedere, a che quei lutti si producessero.
Obbiettivo polemico di questo libro è dunque la «memoria selettiva».
Memoria «guardinga quando il totalitarismo rammentato è il
nazifascismo; sfuggente e trascurata quando è il comunismo». Perché? Il
fatto è che «la prima dittatura fu vinta in una guerra che le
democrazie liberali vollero mondiale oltre che totale, e fu seguita -
in Germania Federale - da un lento ma sicuro travaglio di espiazione:
furono le potenze occidentali a imporlo, ma i tedeschi dell’Ovest lo
interiorizzarono grazie alla tenacia di intellettuali come Heinrich
Böll e di socialdemocratici come Kurt Schumacher e Willy Brandt».
Invece «la dittatura comunista non fu abbattuta da un intervento
armato: per decenni era stata tenuta sotto sorveglianza da una guerra
fredda combinata con la benevola negligenza offerta dalla distensione,
e il fallimento del sistema non diede luogo ad analoghi travagli di
espiazione, di resa dei conti giudiziaria, di graduale conoscenza e
orrore di sé».
Ci vollero anni e anni prima che a Magadan, nella Siberia orientale,
fosse eretto il primo monumento ai morti nei Gulag. Né i resistenti
dell’Est hanno mai ricevuto le corone e gli onori che nel secondo
dopoguerra erano stati riservati ai partigiani antifascisti e alle
vittime inermi del nazismo. Le rivolte violente nei Gulag di
Novocerkassk o Kengir, di Sachalin o Vorkuta, di cui ci ha parlato
Solzenicyn, «non sono viste nella loro analogia con le rivolte del
ghetto di Varsavia o dei lager hitleriani: non sono illuminate e quindi
non danno luce».
Ancora oggi, scrive la Spinelli, l’Occidente «stenta a comprendere in
tutta la sua estensione il disastro umano, sociale, ecologico, che la
macchina comunista ha lasciato in eredità». Lo storico polacco Bonislaw
Geremek, un anno fa, in una conferenza a Varsavia denunciò il fatto
che, a differenza di ciò che è accaduto per la - vituperatissima -
conferenza di Monaco che lasciò a Hitler lo spazio per scatenare la
seconda guerra mondiale, «il tradimento di Yalta - quando Roosevelt e
Churchill consegnarono a Stalin metà del continente - non ha lasciato
tracce di rammarico nelle coscienze d’Europa». In questo modo al
tribunale della memoria il comunismo può usufruire di non
impercettibili favori, anzi di un grande privilegio: «il privilegio
dell’indulgenza, se non dell’oblio».
Ciò che si è prodotto in quei regimi è trattato alla stregua di vicende
dei tempi degli Orazi e Curiazi. Cosa che «è troppo unilaterale per non
apparire capziosa: a nessuno verrebbe in mente di cacciare nazismo e
antinazismo nella notte dei tempi, e l’asimmetria non solo stona ma è
uno sleale stratagemma». La memoria «che resta all’erta sul fascismo e
si addormenta sul comunismo ha finito con l’intorbidare ogni esercizio
mnemonico e autocritico, relativizzando il fascismo stesso e i
neonazisti dell’Est che sono il frutto avvelenato dell’homo sovieticus:
delle sue impunità come del suo nichilismo etico».
Sono parole importanti quelle della figlia di Altiero Spinelli anche
perché pronunciate da un’intellettuale che, vale la pena di ricordarlo,
per ragioni personali oltreché familiari non ha nessun motivo di
indulgenza nei confronti dell’altro totalitarismo del Novecento, quello
nazifascista. Anzi. Eppure, anche rendendosi conto che «la camera a gas
che stermina milioni di uomini perché nati ebrei e programma l’espianto
di un popolo è un crimine che mal sopporta equivalenze ridondanti», è
lei stessa a mettere in guardia da una affermazione troppo estesa
dell’unicità del genocidio perpetrato dai carnefici di Hitler. «La
volontà paragonatrice», scrive, «non è sinonimo di banalizzazione: se
non è male adoperata, è la decisione di passare dal proprio personale
strazio a quello dell'altro, e di non reclamare per sé lo statuto
esclusivo di sofferente e di perseguitato». E, se è vero che la Shoah è
stata «la più terribile di tutte le catastrofi», è anche vero che
bisogna fare molta attenzione nel maneggiare questo triste primato: la
scelta di superlativizzare un evento come quello rischia con il tempo
di apparire «quasi illogica oltre che insincera»; «e col volgere degli
anni non sarà più creduta». Qualche pagina più in là, la Spinelli
lamenta la circostanza che non sia «possibile commemorare i tre milioni
e più di polacchi non ebrei uccisi nei campi accanto ai connazionali
ebrei»: il deragliamento della memoria è diffuso, quando essa si
sofferma sul genocidio nazista». Per lei, dunque, è venuto il momento
di, anzi è «urgente» scrivere a tutte lettere che la carestia del
‘32-33 in Ucraina fu «sterminio consapevole» e che la Kolyma «altro non
era che un Lager». Sì, proprio come quelli dei nazisti.
Abbiamo detto all’inizio che questo libro offre un quadro di
riferimento per coloro che, come noi, hanno letto e hanno intenzione di
continuare a leggere tutti gli articoli che Barbara Spinelli va
scrivendo in questi anni sulla «Stampa». Nel senso che scorrendo questo
saggio si può capir meglio perché, ad esempio, lei abbia difeso il
ministro degli Esteri tedesco Joschka Fischer quando alla vigilia della
battaglia finale contro Milosevic propose di sostituire all’ambiguo
imperativo «mai più guerra!» quello ben più intenso «mai più
Auschwitz!»: «per impedire o combattere Auschwitz», sostenne Fischer,
«dobbiamo sapere che le guerre sono a volte obbligate». Quello che
dobbiamo evitare, dunque, non sono i conflitti armati (che pure, va da
sé, devono essere scongiurati, nella misura del possibile) bensì ci si
deve impegnare con ogni mezzo contro il riaffacciarsi del mostro
totalitario che porta con sé il crimine contro l’umanità. Mostro che
non è ancora debellato anche per l’impossibilità, a causa dei problemi
di cui s’è detto poc’anzi, di fare un conto definitivo con la vera
storia del Novecento.
Allo stesso modo, date queste premesse, si può comprendere perché la
Spinelli sia poco indulgente nei confronti del segretario dell’Onu Kofi
Annan che era responsabile della missione di pace in Ruanda, in
quell’aprile del 1994 quando gli hutu sterminarono i tutsi e lui decise
di ritirare il contingente delle Nazioni Unite; e che nel ‘99 ritirò i
caschi blu da Timor Est lasciando i cittadini inermi di fronte alle
milizie indonesiane, le quali, com’era ampiamente prevedibile, li
massacrarono. Con l’aggravante che quel ritiro fu ordinato da Kofi
Annan mentre presentava un mea culpa per non aver impedito l’eccidio di
Srebrenica del ‘95: Kofi Annan, scrive la Spinelli, «giunge sempre
tardi, ipocritamente e neghittosamente, perfino con i suoi mea culpa».
E, trasferendoci dai grandi ai piccoli misfatti, l’autrice ricorda con
disappunto che François Mitterrand il 21 maggio del 1981, nel giorno
del suo insediamento sul trono che era stato di De Gaulle, invitò ad
assistere alla cerimonia intellettuali e politici di tutto il mondo -
da Gabriel García Márquez a Willy Brandt, da Julio Cortazar a William
Styron a Elie Wiesel - ma non aprì i cancelli dell’Eliseo ai dissidenti
dell’Est: «Non avrebbe rischiato molto a invitare Havel o Walesa,
Bukovskij o Kolakowski; e anche se alcuni fossero stati impediti a
venire sarebbe stato importante il gesto che significativamente
mancò».
Da questo esame complessivo della fine del Novecento non poteva essere
assente l’Italia degli ultimi anni. Leggendo le pagine della Spinelli,
si capisce che la si potrebbe definire tuttora un’«intellettuale di
sinistra». Ma senza nessuno dei paraocchi che furono il carattere
preminente di tale figura.
Certo, è critica nei confronti di Silvio Berlusconi e del suo
«anticomunismo più elettoralistico che meditato», distante anni luce
dal centrodestra, ma non è in nessun modo condiscendente con l’altra
parte, quella che, presumibilmente, è la sua. Ampia è la rivalutazione
che la Spinelli fa della figura «occidentale» di Bettino Craxi, visto
come un precursore della parte più moderna del socialismo europeo.
Anche se l’autrice non si esime dall’ammettere che il «sogno» di Craxi
fu «edificato su una nozione particolarmente disinibita della
democrazia liberale». I diessini sono da lei accusati di essersi
indebitamente appropriati del patrimonio politico craxiano: con la
conseguenza che «il trafugamento dell’eredità politica di Craxi graverà
ancora per anni sulla formazione ex comunista». Tanto più che questo
furto, grazie al quale hanno conosciuto un decennio di onori, non è
attribuibile alla loro destrezza, ma è un regalo dei magistrati
milanesi. «L’azione dei giudici di Milano», scrive Barbara Spinelli pur
riconoscendo come tutti che l’ex Pci era un po’ più pulito degli altri
partiti, «sembrava del tutto disinteressata alla doppia corruzione che
aveva regnato nel comunismo italiano: corruzione che per un verso
apparentava il Pci ai partiti processati... e per un altro verso era il
risultato di una lunga dipendenza finanziaria dall’Urss durata, per
ammissione dello stesso Armando Cossutta, fino al 1987». Appena due
anni prima della caduta del Muro. I magistrati di Milano, pur non
essendo né Di Pietro né Borrelli filocomunisti, per un qualche calcolo
graziarono gli uomini dell’ex Pci, sicché «il privilegio che veniva
loro concesso consentì ai nipoti di Togliatti una drastica riduzione
delle fatiche autocritiche e si trasformò in un salvacondotto precoce,
non fino in fondo meritato e soprattutto non legittimato». Quel dono
dei magistrati conteneva, però, un virus forse letale che trasmise al
sangue dei beneficiati. «La discolpa divenne un regalo avvelenato col
passare del tempo: in effetti equivaleva a un lasciapassare democratico
che i postcomunisti non si erano dovuti guadagnare con le proprie mani,
pagando i prezzi richiesti, facendo un’autentica critica del passato,
entrando in una normale competizione con gli avversari in vista
dell’alternanza per decenni bloccata e infine possibile».
Ai postcomunisti fu dunque concesso un lungo periodo di «spavalderia»
durante il quale si sono sentiti (e sono ampiamente stati) esentati dal
dover procedere, dopo la svolta iniziale di Occhetto, ad alcun riesame.
A un riesame per esempio «di quel che l’internazionalismo pacifista in
effetti era stato: non una scelta cosmopolita, una lotta transnazionale
per i diritti dell’uomo, ma il consenso spesso entusiasta alle
aggressioni belliche di Mosca e ai delitti del comunismo in Europa e
nel mondo, in Ungheria come nella Cambogia di Pol Pot, che il comunismo
italiano aveva festeggiato con fervore fino a quando il genocidio
divenne evidente anche per i ciechi». Sicché oggi «negli album
personali e di partito si mescolano alla rinfusa Vietnam e Che Guevara,
Jan Palach e i carri sovietici a Praga, Stalin, Pol Pot e le
manifestazioni pacifiste contro i missili Nato; Craxi vilipeso e il
socialismo liberale, Tangentopoli come distruzione della Prima
Repubblica e il tentativo di Violante di ripensare - sette anni dopo -
gli errori della stagione giustizialista: tutte queste ramificazioni
formano una sorta di ginepraio inestricabile, che costituisce
l’identità della sinistra ex comunista». Nel loro mondo «le più
svariate identità sono a disposizione come in un menu; scegli questa o
quella a seconda della platea, delle convenienze ma anche dei sognanti
stati d’animo». Ma i nodi sono venuti al pettine. E oggi che il
capitale di delegittimazione dei loro avversari messo a disposizione
dal pool di Mani pulite si è definitivamente consumato, per loro è
venuto il momento di ricominciare daccapo.
Da dove? La Spinelli è tanto affascinata dalla personalità politica di
Romano Prodi quanto è sprezzante nei confronti di Massimo D’Alema, il
quale, a suo avviso, «non possedeva la vocazione a decidere con
autorità, e a perdurare poi nella decisione quando su di essa si
radunavano nubi». Per i postcomunisti, alla vigilia del congresso che
presumibilmente incoronerà Piero Fassino, le previsioni sono fosche: «i
diesse che ora vivono i sogni altrui sono destinati a una mutazione
difficile, accompagnata da una vendetta: se non si scioglieranno in una
formazione più ampia, se non compiranno una rivoluzione inconfutabile -
nominando ai vertici del partito dirigenti senza un passato comunista -
imboccheranno, come il Psi, la strada di un raggruppamento sempre più
piccolo, e sempre più solo». «La politica della memoria», è la sua
annotazione conclusiva, «è la strada stretta che sola permette alle
sinistre e alle nazioni d’Europa di agire nel mondo con coerenza, di
unificarsi oltre i vecchi muri, di ricominciare a incidere nelle scelte
internazionali facendo tesoro delle lezioni, buone e cattive, apprese
dalle esperienze di ieri». Parole da condividere senza eccezione
alcuna.
La Stampa
Giovedì 13 Settembre 2001
Leggo la bella intervista di Giancarlo
Bosetti a Norberto Bobbio pubblicata da Repubblica e vi ritrovo il
lucido realismo e il rigore etico del mio antico maestro di liberalismo
degli anni Cinquanta all’università di Torino. Si chiede Bosetti:
«Quindi quell’alleanza (tra democrazia e comunismo che sconfisse il
nazismo, n.d.r. ) non aveva radici in una maggiore affinità, o almeno
in una minore distanza, tra democrazia e comunismo?». Risponde Bobbio:
«Questa è una delle idee che i comunisti hanno coltivato per
autogiustificarsi, è stato un tentativo di autolegittimazione del
comunismo». «Noi che abbiamo combattuto il nazismo alleati dei
comunisti (e per fortuna c’è stata questa alleanza, che ha determinato
la vittoria della democrazia) - egli prosegue - abbiamo sempre cercato
di legittimare e giustificare in qualche modo i comunisti (...) Dopo la
sua sconfitta definitiva siamo stati costretti a rivedere le idee che
ci eravamo fatti sul comunismo». E ancora: «Non c’è dubbio che c’è
stata una parentela tra nazismo e comunismo (...) Comunisti e nazisti
credevano che la loro utopia indicasse la via del progresso invece
erano ugualmente reazionari». Sono affermazioni forti. Andrea
Marcenaro, in una lettera al Foglio , così commenta ironicamente il
titolo che gli ha dato il quotidiano diretto da Ezio Mauro: «
Repubblica , un giornale che non ama forzare i toni, ha scelto con
coraggio un titolo spregiudicato: BOBBIO, tutto in grosso». E’, quindi,
dalle affermazioni di Bobbio e dal commento di Marcenaro che vorrei
partire per sviluppare alcune riflessioni.
Sulle prime non ho nulla da eccepire, se non aggiungervi due
constatazioni di fatto. La prima: che anche dopo la sconfitta del
nazismo e la fine della "necessitata" alleanza di guerra tra democrazia
e comunismo, i comunisti italiani e i loro compagni di viaggio hanno
continuato a contrapporre alla democrazia liberale l’utopia comunista.
Allora, chiunque sostenesse che reazionari erano coloro i quali
difendevano i regimi del "socialismo reale" veniva puntualmente
accusato di esserlo lui che ne denunciava gli orrori. Adesso che lo
dice anche Bobbio come la mettiamo?
Seconda constatazione: che i comunisti italiani hanno atteso la caduta
del Muro di Berlino (1989) e persino la dissoluzione dell’Unione
Sovietica (1991) per smetterla di dirsi comunisti e rivedere le proprie
posizioni sul comunismo. Ricordo come, a metà degli anni Settanta, un
intellettuale sovietico perseguitato dal regime aveva commentato la
difesa che alcuni comunisti italiani avevano fatto dell’Urss durante
un’accesa discussione a casa mia a Mosca: «Non dubito della vostra
buonafede. Vi chiedo soltanto di non continuare a far pagare a noi il
vostro ritardo nel capire». Perché Occhetto, D’Alema, Veltroni e
quant’altri del Pci e i loro compagni di strada, che allora definivano
puramente e semplicemente "propaganda anticomunista" il racconto di
quello che succedeva nei Paesi del "socialismo reale", non ci spiegano
una volta per tutte le ragioni di quel ritardo?
Vengo, così, al commento di Marcenaro, alla cui ironia, peraltro, non
mi associo (non fosse che per fair play nei confronti di un giornale
concorrente del mio). E mi chiedo. Se chi, come Bobbio, ha la
condivisibile giustificazione generazionale per la propria indulgenza
nei confronti del comunismo, che giustificazione ha chi, più giovane e
magari appartenente alla ricca borghesia, del comunismo è stato
corifeo, se non lo stupido, incolto, vile conformismo di apparire
snobisticamente "alla moda"? Se i postcomunisti hanno una qualche
ragione, personale e partitica, ad affrontare il problema del proprio
"ritardo nel capire", che ragione hanno i loro compagni di strada a
continuare a tacere sulle proprie complicità?
L’unica spiegazione che riesco a trovare è che essi non sono mai
vissuti nei Paesi del "socialismo reale". Ma è sufficiente? A me pare
di no.
Piero Ostellino
Corriere della Sera
Sabato 27 Gennaio 2001
Bobbio:le illusioni del comunismo e la mia battaglia per i Lumi
di GIANCARLO BOSETTI
Caro Bobbio, in qualche enciclopedia ho letto: Norberto Bobbio,
"esponente del pensiero neoilluminista". Per competenza formalmente
riconosciuta devo darle la parola nella discussione aperta sulla
Repubblica da un articolo di Eugenio Scalfari che solleva vari quesiti,
ma soprattutto questo: Isaiah Berlin ha intitolato una sua raccolta di
saggi su autori antiilluministi Controcorrente, ma oggi che cosa è più
"controcorrente", stare con gli illuministi o con i loro avversari? "A
giudicare dalle filosofie dominanti oggi, e soprattutto dai due grandi
punti di riferimento dei filosofi contemporanei, che sono Nietzsche e
Heidegger, dovrei dire che ha ragione Scalfari, che è controcorrente
l'Illuminismo". Ma cominciamo da Berlin: Scalfari sospetta che il suo
cuore stia dall'altra parte. Anche lei ha avuto dei sospetti del
genere, in un articolo del 1980 per la Rivista storica italiana,
dedicato allo stesso libro, che era appena uscito in Inghilterra. "Non
c'è dubbio che leggendo i libri di Berlin e soprattutto gli autori a
cui va la sua simpatia, sembrerebbe di sì che lui stia dalla parte dei
filosofi antiilluministi, sia i pre-illuministi, come Vico, Herder e un
assoluto reazionario come Hamann, sia i post-illuministi come un altro
dei suoi preferiti, Sorel". Vico è fondamentale nella storia del
pensiero secondo Berlin. "Certamente, ed è un tipico rappresentante
dell'antiilluminismo; non per nulla Giambattista Vico è stato una
quasi-scoperta di Benedetto Croce che ha svolto una delle sue grandi
battaglie filosofiche contro l'Illuminismo considerandolo una
manifestazione di quello che si usava chiamare "razionalismo astratto",
l'espressione di una ragione che non sa riconoscere la pluralità delle
situazioni storiche. Per lui la ragione illuministica era una ragione
eminentemente antistorica". Ma la partita non si chiude qui, con questa
contrapposizione crociana. "L'Illuminismo può essere considerato da due
lati diversi, secondo che cosa gli si contrappone. Se gli si
contrappone lo storicismo, che fa valere la ricchezza e la complessità
del discorso degli storici, può sembrare una filosofia del passato,
però se lo si considera nel suo significato autentico di philosophie
des Lumières, di Aufklärung nel senso kantiano, e in questo caso gli si
contrappone non lo storicismo ma l'oscurantismo, le filosofie
tradizionali di ispirazione religiosa, il dogmatismo, in generale la
cultura dei secoli che gli Illuministi chiamavano il "regno delle
tenebre", allora non è altro che la filosofia del progresso
contrapposta alla filosofia reazionaria". Questa versione suscita
indubbiamente più simpatie. "La scelta della contrapposizione dipende
dalla maggiore o minore avversione che si ha per l'Illuminismo.
Certamente quelli come me che, dopo la guerra, si sono considerati
"neoilluministi", facevano riferimento al fil de la lumière, a un
ideale di rischiaramento, in una situazione che vedeva prevalere da un
lato la filosofia romantica, idealistica, di Croce e Gentile, e
dall'altro filosofie di ispirazione religiosa come il neotomismo
dell'Università cattolica del Sacro Cuore. Le consideravamo entrambe
filosofie regressive anche perché avevano in qualche modo accompagnato
il fascismo, o lo avevano giustificato e sostenuto (basta pensare a
Gentile). Contro queste noi sostenevamo una filosofia della ragione
autonoma, che giudica la storia, non si dà il compito di giustificarla
secondo il principio hegeliano che tutto ciò che è razionale è reale e
tutto ciò che è reale è razionale". Sono cose che si imparavano nei
licei degli anni Sessanta e Settanta, ma adesso si vanno forse un po'
allontanando. "Noi vedevamo la storia dal punto di vista di una idea di
progresso fondato sul principio della libertà, intesa come liberazione
progressiva e non mai del tutto esaurita, da tutti i pregiudizi, dai
miti, dalle filosofie metafisiche, che in sostanza erano fideistiche.
Noi neoilluministi rivendicavamo le ragioni della ragione. E nel
contrasto tra ragione e fede, tenevamo per la ragione. Pensate un po'".
E su Vico c'erano molte polemiche. "Perché era l'autore
di Croce, il rappresentante di una filosofia fortemente
antiilluministica, in quanto storicistica. Nicola Abbagnano, con la
pretesa di essere originale, sosteva che Vico fosse in realtà un
illuminista, il primo illuminista italiano. Ma per la maggior parte di
noi, che pure eravamo suoi amici, questa interpretazione era
inaccettabile. In sostanza il concetto di Illuminismo, come tutti gli
"ismi" si presta alle più diverse interpretazioni: se lo guardi con
simpatia è filosofia dei Lumi contro le tenebre, se lo guardi con
antipatia è intellettualismo contro storicismo". Insomma il concetto è
un po' vago. "Ed era piuttosto vago anche in Gobetti. Pensando a questa
discussione, in questi giorni ho riletto un suo articolo che si
intitola Illuminismo. Era l'editoriale di presentazione della sua terza
rivista, nata nel dicembre del '24, che si chiamava il Baretti, dal
nome dello scrittore del 700 elevato a rappresentare l'Illuminismo
italiano. Eppure Gobetti, che era crociano, veniva da una educazione di
tipo storicistico. Si capisce che il concetto, nella sua mente
affollata di idee che urgono e spingono dalle parti più diverse, viene
preso per il suo significato positivo anche se generico: è una bandiera
di battaglia contro il fascismo, contro Gentile e il suo idealismo,
contro le conversioni alla Papini, contro il neoclassicismo della
Ronda, contro il futurismo e le "cento religioni", contro il
provincialismo e il nazionalismo". Ma se sia Croce che Berlin, entrambi
liberali, hanno questa grande simpatia per Vico e per autori storicisti
e atiilluministi, viene da chiedersi: tra liberalismo e Illuminismo ci
sono dei conti in sospeso? "L'antiilluminismo negli scritti di Berlin
mi ha fatto sorgere la domanda se il suo sia veramente un pensiero
liberale. Lui è indubbiamente considerato un grande pensatore liberale,
ma gli autori, tutti quelli che propone, rivaluta, mette in onore,
appartengono alla tradizione opposta, tranne uno: John Stuart Mill.
Ora, nella tradizione liberale sono fondamentali, oltre a Kant, John
Locke e Benjamin Constant. Quest'ultimo è l'autore de La libertà degli
antichi contrapposta alla libertà dei moderni (un libro che fissa per
sempre che cosa si dovrebbe intendere per liberalismo, non la libertà
degli antichi ma quella dei moderni, che è libertà da, freedom from,
libertà dallo Stato, emancipazione degli individui dalla soggezione
alla collettività, mentre la libertà degli antichi è quella che si
identifica con l'autonomia, cioè con l'obbedienza alla legge che
ciascuno dà a se stesso (Rousseau). La libertà liberale dei moderni è
uno scioglimento che si vorrebbe definitivo da ogni forma di
organicismo. Ora se si prende questa libertà alla Constant e la si va a
cercare negli autori di Berlin non la si trova proprio, nonostante lo
stesso Berlin sia, come si sa, l'autore dei Quattro saggi sul concetto
di libertà ed abbia legato il suo nome proprio alla distinzione tra
"libertà negativa" e "libertà positiva"". Ma in Berlin c'è la libertà
di Kant che è anche emancipazione dell'individuo. E il romantico Hamann
lui lo studia a fondo ma lo descrive come un fanatico, come
l'iniziatore della velenosa e violenta tradizione del nazionalismo.
"Sì, ma anche la intervista che diede a Reset nel 1994 non è del tutto
convincente. Tornava a insistere sui meriti di Vico e di Herder e sul
pluralismo, confermando che il grande obbiettivo di Berlin era
l'attacco al monismo, in tutti i suoi aspetti, quello ontologico (la
realtà è regolata da un unico principio), quello metodologico (la
realtà tutta, umana e naturale, è conoscibile attraverso una unica
ragione, quella della scienza), quello teleologico (tutto converge
armonicamente verso una unica meta) e quello etico (c'è un valore
ultimo, un unico bene uguale per tutti). Il monismo è sempre il grande
bersaglio di Berlin, l'eterno nemico da battere, per fare trionfare il
pluralismo. Rimane il fatto che gli autori che Berlin coltiva sono i
nemici dell'Illuminismo. Questa contraddizione rimane. Una volta ho
fatto l'ipotesi che essi rappresentassero per lui i campioni della
"libertà positiva", ma non sono mai riuscito a darne una convincente
spiegazione". La libertà positiva (la libertà "di", la capacità di
diventare padroni di se stessi, di fare, di eliminare gli ostacoli),
alla quale Berlin preferiva quella negativa (la libertà "da"), più
genuinamente liberale, mentre la prima è imparentata con il socialismo
e il comunismo, ci porta qui a misurare i rapporti tra Illuminismo e
marxismo. Per Berlin il marxismo rappresentava la "esagerazione" dalla
parte opposta a quella del nazionalismo, il comunismo era un eccesso di
universalismo e di razionalismo, altrettanto pericoloso. "Ma anche in
questo Berlin non mi convince, perché rispetto alla libertà della
democrazia liberale e borghese, nazismo e comunismo sono due fratelli:
hanno lo stesso nemico. Ho molto apprezzato il libro appena uscito, di
Paolo Bellinazzi - L'utopia reazionaria (Name editore) - che analizza
gli argomenti che nazismo e comunismo propongono a difesa delle proprie
tesi e dimostra che, contrariamente alla opinione comune secondo cui
nazismo e comunismo sono ideologie opposte, essi hanno matrici comuni:
tutti e due combattono il libero mondo borghese del mercato e degli
stati parlamentari, tutti e due sposano la Gemeinschaft contro la
Gesellschaft, la comunità arcaica (quella in cui l'individuo è soltanto
parte di un organismo) contro la moderna società degli individui
singoli (e in quanto tali in libero rapporto tra di loro), tutt'e due
avversano l'individualismo e sono fautori dell'organicismo sociale".
Lei sta dicendo che comunismo e nazismo vengono presentati entrambi
come nemici della modernità. "Sì, e il Bellinazzi argomenta molto bene
questa tesi. Quando per esempio scava nei rapporti tra i due
antagonisti Carl Schmitt e György Lukacs scopre che sostengono su per
giù le stesse idee perchè hanno lo stesso nemico, la borghesia e le
filosofie del mercato; in un certo senso avversano entrambi la stessa
produzione della ricchezza, sono tutti e due reazionari. Il principe di
questi reazionari sarebbe Rousseau, che rappresenta l'archetipo della
filosofia retriva e antimoderna, una filosofia che conviene agli uni
come agli altri proprio perché reazionaria". Che cosa non va in
Rousseau, dal punto di vista della modernità? "Che stronca il
razionalismo e l'ottimismo degli illuministi e raccomanda ai suoi
contemporanei di ritirarsi nella propia interiorità in un secolo come
il Settecento che era invece destinato ad emancipare l'individuo dal
ritorno all'interiorità agostiniana: in te redi, in interiore homine
habitat veritas. E Rousseau in pieno Illuminismo propone questa marcia
a ritroso nei secoli. Ma è interessante anche la critica che l'autore
svolge, dal punto di vista della modernità, della scuola di Francoforte
di Adorno e Horkheimer, di cui è indicativo proprio l'attacco
all'Illuminismo. Cito dal libro: "Comunismo e nazifascismo sono dei
movimenti retrogradi che cercarono di tornare indietro, dando di bel
nuovo il potere in mano a ristrette e aristocratiche oligarchie"". Ma
lei è d'accordo con le tesi di Bellinazzi? "Il libro è molto ben
documentato dal punto di vista storico e filosofico e mi ha colpito
anche per una certa assonanza di idee. Ho sempre sostenuto che la
storia del Novecento è caratterizzata da tre protagonisti, fascismo,
comunismo e democrazia (e non solo dai primi due). Ho anche sempre
sostenuto che la vittoria sarebbe toccata ai due dei tre che si
sarebbero alleati. La seconda guerra mondiale è stata vinta dalla
alleanza tra democrazia e comunismo, che è stata fatale per il nazismo.
Questo è indubbio, però è anche vero che questa alleanza era una
alleanza di guerra, che si è saldata nel momento in cui stava
scoppiando la guerra mondiale.E infatti appena il nazismo è stato
sconfitto è cominciata la guerra fredda tra i due vincitori, per
cinquant'anni, una guerra che questa volta è finita senza bisogno di
sparare, perchè con Gorbaciov i comunisti hanno gettato la spugna".
Quindi quella alleanza non aveva radici in una maggiore affinità, o
almeno in una minore distanza, tra comunismo e democrazia? Perché,
vede, ci siamo in un certo senso abituati a pensare al marxismo - in
questo d'accordo anche Berlin - come una "esagerazione" ma dalla parte
opposta a quella del nazismo, come un eccesso del "razionalismo
astratto", invece che come un eccesso dell'"irrazionalismo concreto".
Insomma, errore sì, ma dalla parte degli Illuministi e al di là di
loro. "Questa è una delle idee che i comunisti hanno coltivato per
autogiustificarsi, è stato un tentativo di autolegittimazione del
comunismo". Eppure il nazismo si dichiara nemico dei Lumi, mentre il
comunismo si propugna continuatore e "superatore". "Questa valutazione
è destinata a cambiare. Noi che abbiamo combattuto il nazismo alleati
dei comunisti (e per fortuna c'è stata questa alleanza, che ha
determinato la vittoria della democrazia) abbiamo sempre cercato di
legittimare e giustificare in qualche modo i comunisti. Era
comprensibile che cercassimo di rappresentarlo come un fenomeno
progressivo e non regressivo. Eravamo alleati in una guerra mortale,
capite? Ci sforzavamo di vederne gli aspetti positivi, che dopo la
caduta del comunismo, non vediamo più. Dopo la sua sconfitta definitiva
siamo stati costretti a rivedere le idee che ci eravamo fatti sul
comunismo". Quante volte hanno attaccato lei, Bobbio e tutti gli
azionisti per "condiscendenza" verso i comunisti. "E' vero: tutte le
accuse di filocomunismo che ho ricevuto dipendono da quella ragione. Ma
vogliamo renderci conto che noi della nostra generazione siamo stati
alleati del comunismo per combattere il nazismo? Non è una
giustificazione ma una spiegazione. E' evidente che abbiamo sempre
mantenuto una certa differenza nel giudizio critico su nazismo e
comunismo e che non abbiamo mai pensato di identificarli. Ma una volta
caduto il Muro di Berlino, i fatti ci hanno costretto a cambiare idea".
I fatti e i libri. Tre anni fa è arrivato il momento del Libro nero sul
comunismo di Courtois. "E me l'ha fatta lei per l'Unità quella
intervista, nel 1998, in cui dicevo che bisognava prendere atto che
"non c'è paese in cui sia stato instaurato un regime comunista, ove non
si sia imposto un sistema di terrore, dall'Unione Sovietica alla Cina,
dall'Albania di Hoxa alla Romania di Ceaucescu, dalla Corea di Kim Il
Sung alla Cambogia di Pol Pot". Insomma, di fronte alla prova di fatto
che il comunismo era intrinsecamente antidemocratico e totalitario,
bisogna ammettere che la tesi del Bellinazzi è giusta: non c'è dubbio
che c'è stata una parentela tra nazismo e comunismo. L'uno e l'altro
hanno avuto come bersaglio il mondo borghese, non hanno riconosciuto la
positività storica del mondo mercantile, vi hanno visto solo egoismo e
cinismo, hanno considerato la corsa alla ricchezza borghese come un
elemento negativo da combattere per creare una società che abolisse
tutto questo. Comunisti e nazisti credevano che la loro utopia
indicasse la via del progresso, invece erano ugualmente reazionari. In
termini filosofici erano reazionari tanto Marx quanto Nietzsche. Il
valore del mondo libero borghese sfugge all'uno e all'altro, ed è
combattuto tanto dal nazismo quanto dallo stalinismo". Obbiezione: ma
si può coinvolgere in questa equazione tutto il marxismo? Dal movimento
operaio nasce anche il riformismo socialdemocratico, la cittadinanza
sociale, un sistema di civiltà che è il nostro. "E le rispondo che la
fonte principale della socialdemocrazia non è Marx, perché questa nasce
in Inghilterra. La vera antitesi entro il movimento operaio, quella che
dà vita alla tradizione riformista, scaturisce da un mondo non
marxista. Ha contato di più in questo John Stuart Mill che Marx". Altra
obbiezione. Marx era in guardia contro l'accusa di non volere il
progresso e attaccava l'"anticapitalismo romantico". Il Manifesto
comunista contiene un enfatico apprezzamento per la rivoluzione
borghese. Il momento del proletariato doveva venire "dopo". "Questa era
la linea di difesa di Marx, ma le repliche della storia hanno
dimostrato che sbagliava. La sua ideologia ha prodotto il comunismo e
il comunismo è stato l'opposto di quello che immaginava. Quando parlava
del passaggio dal regno della necessità a quello della libertà,
esprimeva una sua illusione, e si è rivelato un terribile errore di
visione storica". Nell'89 lei parlava in un celebre articolo sulla
Stampa di "utopia capovolta", adesso questa è diventata una "utopia
retrograda". "Accetto l'espressione del titolo del libro di Bellinazzi,
utopia reazionaria. E' insita in questo disegno utopico di
trasformazione radicale della società una idea antiliberale, perché il
liberalismo crede che la storia della libertà sia una storia di
continui passaggi dal bene al male dal male al bene, di tentativi
riusciti e tentativi falliti. Non c'è una fine obbligata nella società
perfetta. Liberalismo è uguale ad antiperfezionismo, mentre il marxismo
come il nazismo erano utopie perfezionistiche". Contro il perfezionismo
allora lei è d'accordo con Isaiah Berlin? "Di nulla troppo". "E in
questo Berlin, il Berlin del "legno storto", quello del discorso di
Torino del 1988, della ricerca della compatibilità tra ideali diversi,
e ugualmente validi, aveva completamente ragione".
La Repubblica
25 gennaio 2001
Il Militante diventa Volontario
Che fine ha fatto l’ "eroe comunista"
Simonetta Fiori
Mai requisitoria fu più impietosa. Il "militante comunista" come
cifra del XX secolo, incarnazione estrema del suo attivismo e delle sue
contraddizioni laceranti. Non più homo ideologicus, ma homo faber
spinto dal delirio costruttivista del tempo nuovo. Un po’ ribelle e un
po’ poliziotto, diviso tra Piazza e Caserma, a metà strada tra eroe e
aguzzino. Voleva edificare un mondo più giusto e ne è stato
completamente divorato, con esiti sideralmente lontani dal progetto
originario. Figura doppia e tragica, oscilla continuamente tra
"generosità storica e ferocia burocratica", tra "aspirazioni libertarie
e spirito gregario", tra "emancipazione collettiva e umiliazione
dell’individualità". Nato sulle ceneri della Grande Guerra, esaltato
dall’Ottobre rosso, vissuto sotto i fascismi europei, il "soldato della
rivoluzione" si nutre di violenza, la stessa che è il tratto genetico
del Secolo Breve. E, insieme al Novecento, è condannato a inesorabile
tramonto.
Pur vantando antecedenti letterari illustri — Koestler il più citato —
il disperante ritratto del "comunista idealtipico" rivive di nuova
originalità nell’ultimo e provocatorio saggio di Marco Revelli,
intellettuale indiscutibilmente di sinistra, amato dal leader di
Rifondazione comunista, studioso acuto delle trasformazioni sociali ed
economiche dell’età contemporanea (Oltre il Novecento. La politica, le
ideologie e le insidie del lavoro, Einaudi: da domani in libreria).
All’autore non sfugge la carica dirompente delle sue tesi, che
sicuramente susciteranno discussione tra i suoi amici. «È un messaggio
che ho voluto lanciare alla sinistra. Il Novecento ci consegna un
secolo devastato dalla furia costruttivista dell’homo faber, anche
nella sua variante politica rappresentata dal militante comunista.
L’ordine che ne è scaturito è molto distante da quell’utopia. Se ora
vogliamo salvarci dall’orrore economico d’un mondo governato dal
profitto, dobbiamo andare al di là del Novecento e delle sue
lacerazioni. Trovo sbagliato e fin troppo facile cercare nel passato
solo rassicurazioni; più doloroso scavare tra le pieghe dei nostri
errori».
Lo studioso raccoglie la sfida di un’opera («pur criticabile
nell’impostazione») come il Livre noir du communisme e va a
scoperchiare lo "scandalo del comunismo novecentesco", il primo dei
suoi peccati capitali, che consiste nella «normalità dell’azione
repressiva», quel repertorio di carcere, deportazione, tortura,
delazione, campi di concentramento, spie e aguzzini che ne accompagna
l’esperienza storica. «Una realtà che nessuna revisione dei conti può
occultare né ridimensionare. E che in termini crudi può essere espressa
così: numerose generazioni di comunisti, in questo secolo, condussero
la loro battaglia per un mondo e un’umanità radicalmente diversi,
usando le armi degli altri. Le armi dei propri nemici, delle
tradizionali classi dominanti, degli oppressori e dei tiranni. Per
molti aspetti, peggio degli altri. Nella convinzione condivisa che la
grandezza dei propri fini avrebbe comunque riscattato la durezza dei
mezzi».
È in questa devastante contraddizione — tra i fini desiderati e i mezzi
utilizzati, tra premesse ideali ed esiti reali — che annida la tragica
ambivalenza del militante rivoluzionario. «La sua ineliminabile
doppiezza». «L’io continuamente scisso tra principi giusti e risultati
sbagliati». La sua antropologia è segnata dal rovesciamento di tutti i
valori che il comunismo, una volta conquistato il potere, pratica con
sistematicità. Il ribellismo trasformato in autoritarismo, lo spirito
libertario mortificato in gregarismo. L’identità sovversiva e autonoma
delle origini dissolta nella gestione del potere. Ed è in questo
«drammatico solco tra finalità e mezzi» la grande differenza dal
nazismo, segnato dalla «perfetta coincidenza tra ferocia dei mezzi e
ferocia dei fini». Distanziandosi dal suo maestro Bobbio, che ieri su
queste pagine in un’intervista a Giancarlo Bosetti tracciava una forte
analogia tra i due totalitarismi, Revelli ne contesta anche la
definizione di comunismo come utopia reazionaria: «Il comunismo non è
né incidente di percorso né residuo di passato sopravvissuto nella
modernità: è incarnazione tragica della stessa modernità, essendosi
arreso ai mezzi materiali che il Novecento gli mette a disposizione.
Questo è un secolo in cui la forza delle cose travolge la forza delle
idee».
Il comunismo come strada inesorabilmente sbarrata: «non possiamo
salvarne nulla e dobbiamo ripartire da zero». Andare «oltre il
Novecento», come recita il titolo del saggio. Ma nel gettare in mare il
militante rivoluzionario con il suo fardello di ambiguità, non c’è il
rischio di liquidare quello straordinario patrimonio di energie, uomini
e idealità che pure ha caratterizzato la storia dei comunisti italiani?
Severa la risposta: «È indubbio che in Italia il Pci abbia
rappresentato un grande progetto di educazione civile. Ma il risultato
non è tra i più entusiasmanti: passività, atteggiamenti acritici,
machiavellismo, in qualche caso cinismo. Molti dei valori originari
sono stati bruciati nella grande macchina che mette al primo posto il
potere politico».
Requiem dunque per il soldato della rivoluzione. Sostituito oggi da una
figura ancora evanescente, fragile, «appena percepibile in filigrana
sulla scena sociale». È il Volontario, nuovo attore della solidarietà e
della ribellione, «distante sia dai furori ideologici che dalle
meschinità burocratiche del potere». Non ha né un uniforme né una
bandiera. Non è appunto un soldato. «È un civile, animato dal senso di
responsabilità, capace di "fare" fuori dalle logiche del profitto». Ed
è nel passaggio dall’»estenuata figura del militante» a quella ancora
«vacillante» del Volontario che Revelli rintraccia una delle possibili
«uscite di sicurezza» del Novecento. «Sono consapevole che l’operazione
sia rischiosa. Assumere il volontario come riferimento per un nuovo
inizio comporta una buona dose di iconoclastia. Significa rinunciare a
molte tesi care alla vecchia sinistra. Un scommessa, dunque. Che oggi
vale la pena tentare».
La Repubblica
27 gennaio 2001
DUELLO A SINISTRA
Uno dei padri fondatori del «Manifesto » all’attacco di «Oltre il
Novecento» dello storico Marco Revelli accusato di liquidare gli ideali
progressisti
Luigi Pintor e l’ultimo fantasma del comunismo
Asor Rosa: «Non condivido le nostalgie ma le comprendo». Colletti: «Certe critiche aprono allo spiritualismo»
Il paradosso sta in questo: che il bilancio finale del comunismo, se
non proprio il suo necrologio, sia ospitato in prima pagina su quel
Manifesto che porta ancora sotto la testata l’impegnativa dicitura
«quotidiano comunista». Paradosso nel paradosso: l’indignato
stroncatore è uno dei fondatori del giornale, padre nobile della
sinistra, insomma Luigi Pintor; ma anche lo stroncato, Marco Revelli,
autore del saggio Oltre il Novecento , è un collaboratore importante
del medesimo quotidiano. Che cosa rimprovera Pintor al più giovane
interlocutore? Non qualche eccesso polemico, bensì la colpa più grave
(si sarebbe detto un tempo) dal punto di vista rivoluzionario. Pintor
definisce Oltre il Novecento «il libro più organicamente anticomunista
che io abbia letto». Critica totale, dunque, che non lascia spazio a
compromessi. Secondo Pintor nel libro «si demolisce, in coerenza con
l’impostazione generale, tutto il comunismo novecentesco dalla prima
all’ultima pietra, anzi dalla prima all’ultima maceria».
E dire che Marco Revelli è considerato uno dei più attenti studiosi di
area ultra progressista. Possibile che si sia convertito
improvvisamente al revisionismo più berlusconiano? Naturalmente non è
così. La sua analisi del secolo appena concluso ha il punto focale
nell’individuazione dell’avversario: quell’«homo faber» che vive per
produrre e, come aveva pronosticato Marcuse durante i ruggenti anni
della contestazione, si ritrova oggi schiacciato in una sola
dimensione. Fin qui, probabilmente, molti intellettuali di sinistra
potrebbero anche concordare: è tuttavia la liquidazione degli ideali
comunisti che turba Pintor. Proprio il comunismo che voleva rovesciare
il capitalismo, i ritmi alienanti delle catene di montaggio e insomma
l’inumanità della produzione alienata, argomenta Revelli, ha finito
invece per ereditarne i meccanismi perversi. E così, per ironia della
storia, l’idea di un futuro comunista simile a una fabbrica virtuosa
accomunerebbe Gramsci a Ford.
Un po’ troppo, a giudizio di Pintor, oltretutto amareggiato perché «una
intelligenza di sinistra antitetica alla cultura dominante ha una forza
di suggestione che i post-comunisti non hanno quando vilipendono il
proprio passato né i revisionisti quando falsificano la storia».
Può darsi che l’articolista si faccia prendere un po’ la mano, allorché
nel finale del suo articolo arriva a magnificare i meriti storici
dell’indefesso eroe del lavoro sovietico Stakanov, o quando demolisce
senza appello il valore del volontariato civile (indicato invece da
Revelli come una speranza per l’avvenire dell’umanità). Resta il fatto
che dà voce a un sentimento diffuso a sinistra: il rifiuto di liquidare
senza appello, e una volta per tutte, l’esperienza comunista. Su questo
punto osserva, ad esempio, Alberto Asor Rosa: «Pintor si indigna a modo
suo a proposito di una cosa che considera aberrante: la liquidazione di
un’esperienza che ha avuto anche momenti importanti, di liberazione.
Difende una sua idea del comunismo, che io non condivido ma
comprendo».
Il politologo Giorgio Galli è più critico nei confronti di Revelli:
«Anzitutto - osserva - il suo saggio non mi sembra abbastanza
sistematico, data la vastità dell’argomento. Ma anche limitandomi a
valutare le critiche di Pintor, è difficile negare che il comunismo sia
stato una componente del movimento operaio, e che in Occidente abbia
avuto anche dei meriti. Io, almeno in questo, sono d’accordo con
Revelli».
Non è paradossale che il manifesto ospiti un simile «regolamento di
conti» fra le macerie del comunismo? Giorgio Galli lo giustifica così:
«L’estrema sinistra è passata dalla assenza di critica alla
liquidazione radicale. Insomma, da uno schematismo all’altro».
Paradosso per paradosso, è il liberale Lucio Colletti che riconosce a
Revelli una certa profondità di analisi: «Quello che è certo è che sia
il capitalismo che il marxismo hanno avuto in comune l’idea che la
storia sia essenzialmente sviluppo delle forze produttive. Il guaio,
però, è che Revelli respinge tutto questo e si abbandona a sogni da
filosofia orientale. Insomma, voltare le spalle al crudo dilemma del
Novecento significa consegnarsi alla New Age e al suo spiritualismo, o
a quello spiritismo tanto di moda in certi film di Hollywood».
Dario Fertilio
Corriere della Sera
21 febbraio 2001